Giovani violenti nella città divisa
La città, per sua natura e struttura, si mostra al suo abitante, come al turista che l’attraversa, solo in quello che vuol far vedere di sé. I suoi luoghi derivano spesso il loro nome da alcuni attributi architettonici, storici, paesaggistici, culturali, che la rendono nota (i ponti, i giardini, i grattacieli, il lago, un museo, le spiagge, eccetera) e stabiliscono praticamente una separazione tra questa realtà e un’altra parte dello spazio urbano, quello da non vedere, quasi che non esistesse. Di questa parte la povertà, la miseria, il ghetto non saranno visti quasi mai; forse saranno intravisti, a volte per curiosità quasi zoologica, i luoghi della prostituzione o del degrado abitativo, ma gli assetti urbani nei quali la miseria “fa paura” saranno solo descritti ed immaginati, e si cercherà così di esorcizzare qualcosa che è bene non entri nell’ambito della rappresentazione urbana che sta davanti al visitatore come al cittadino comune.
Le guide consiglieranno anzi al turista di non avventurarsi in quei luoghi, presupponendo che gli spazi dove si annidano il fallimento e la violenza sociale, il conflitto e la prostituzione, dove la vita umana può valere pochi dollari o una dose tagliata male non debbano appartenere alla realtà visibile e tanto meno alla socialità. La rimozione di quella realtà corrisponde dunque ad una frantumazione, scomposizione e ricomposizione dell’ambiente.
La storia delle città è così storia dell’avvento del possibile e del meraviglioso solo che si riesca a tenere presente che accanto a questa si sviluppa l’osceno e l’inenarrabile, la disgregazione e la violenza. La città degli edifici rappresenta un ordine, un elemento, una parte della realtà. La città delle case, delle abitazioni, degli uffici, nella quale le istituzioni storiche esplicano il proprio funzionamento attraverso una privatizzazione degli spazi, anche di quelli pubblici, ha però luoghi diversi. L’insediamento urbano finisce per divenire spesso, nella vita quotidiana del cittadino “normale”, un percorso da uno spazio privato all’altro, fatti salvi una serie di luoghi pubblici (cinema, supermercati, ristoranti) la cui connotazione sociale è garanzia che in essi tenda a ritrovarsi solo una parte della città. Il paradosso di questo è che l’automobile può essere elemento di un moltiplicarsi della mobilità, da luogo a luogo, e pure di assenza dalla socialità dei luoghi, attraversati ma non vissuti. La separazione dal resto è dunque tendenzialmente invisibile ma la scomposizione è reale e bruciante e viene recuperata solo a livello di una serie di quartieri nei quali le radici etniche possono garantire il mantenersi di una serie di relazioni.
A questo ambito degli edifici si affianca la città delle strade, percorsa da coloro che non possono godere di uno spazio privato o il cui insediamento abitativo è così angusto che gli viene comunque preferita una proiezione esterna, coloro che esplicano i propri percorsi esistenziali spesso in tutta, proprio in tutta la loro dinamica, entro questa realtà che annulla ogni riservatezza dei sentimenti: “Sono un esperto di strade” dice Mike/River Phoenix, il protagonista di Belli e dannati. “È tutta la vita che assaggio strade. Questa strada non finirà mai. Probabilmente gira tutt’intorno al mondo”.
La coscienza sociale che si struttura all’interno e nel rapporto con questa costruzione dello spazio urbano ha dunque sin dal suo originarsi un carattere frammentario, penalizzato, e non perché si possa pensare ad una coscienza che si produce in relazione solo ad una parte dello spazio, ma perché dove esso è disarticolato e parziale, dove esso affonda fin dall’infanzia nell’angoscia e nella difficoltà di vivere e sopravvivere, la percezione dell’altra parte, di quella ricca, di quella “normale” sarà indubbiamente molto più forte, presente, attuale, di quanto lo siano la povertà, la deprivazione, la malattia per la realtà opulenta, ricca, abbiente. La dimensione, la ricchezza e la provocazione dei rumori e dei suoni nella città risentiranno per esempio di questo elemento, ma ne risentirà forse ancora di più la divisione spaziale del consumo che privilegerà alcune aree, alcuni settori sociali, alcune realtà cui saranno attribuiti maggiore potere sociale e più numerose e diverse occasioni di vita.
La gestione, la “proprietà”, il controllo delle strade, la costruzione del senso di appartenenza per chi appartenenza non deve avere (e come potrebbe percepire l’appartenenza della degradazione, difenderla, preservarla?) diviene dunque da un lato la realtà nella quale bande giovanili etnicamente o territorialmente diverse si contrastano per conquistare il predominio dello spazio, dall’altro l’ambito nel quale la povertà si struttura rappresentandosi nella sua quotidianità. Si tratta di una vecchia teoria, circa la “difesa” ed il controllo dello spazio che gli individui sono portati ad attuare, che di fatto tende in più occasioni ad essere rimessa in circolazione, senza calcolare che la dinamica disgregatrice e le direttrici di comportamento “criminale” possono trovare accentuazione proprio a partire da livelli di estraniazione di fatto rispetto al territorio, cui si costringono una serie di soggetti.
Qui la civiltà non ha spazio per estrinsecarsi; i sentimenti dunque saranno all’altezza di questa situazione, in una stretta competizione tra stupro e violenza, sessualità di soggetti giovanissimi e non sposati e microfurti, futuro appiattito nella ripetitività di una vita che non permette la dimensione del desiderio proiettato nel tempo a sostenere e rafforzare l’esistenza.
(Raffaele Rauty, “Homeless, povertà e solitudini contemporanee”, 1995) città divisa
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