Gianni Agnelli, fu vera gloria? Eccovi qualche buona ragione per dubitarne
Ricorre in questi giorni il centenario della nascita di Gianni Agnelli. E’ una ricorrenza che, comprensibilmente, sarà celebrata dal e nel suo mondo con inni e ditirambi. Manifestazioni che, di solito, si addicono ai maggiordomi di una dinastia ma poco a un giudizio equanime su una personalità pubblica che rappresentò il vertice borghese del capitalismo industriale italiano dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso fino alla sua morte nel 2003.
Il direttore dell’house organ di casa Agnelli “la Repubblica”, ha intervistato per l’occasione il vecchio (quasi 98 anni suonati) Henry Kissinger, amico personale dell’avvocato. Molinari dice, tra le more, che “Agnelli ha aiutato a ricostruire l’economia italiana dopo la Seconda guerra mondiale”. Strano, perché quando divenne Presidente, sostituendo il prof. Valletta, nel 1966 l’Italia era bella e ricostruita e aveva già fatto il suo decollo industriale con il boom a cavallo degli anni ’50 e ’60. Lui, in quegli anni, si era dato alla pazza gioia come testimoniavano le cronache mondane. A volte l’eccesso di compiacenza fa brutti scherzi alla memoria storica. Kissinger, da parte sua, lo ricorda come “uomo del Rinascimento”. Forse per quel suo vezzo, presto imitato dai suoi sottoposti e imitatori, di portare l’orologio sopra il polsino della camicia. Un cronometro che doveva servirgli a poco se, come racconta l’ex segretario di Stato americano nell’amministrazione Nixon, gli telefonava alle quattro di notte per chiacchierare. Chissà se gli chiese mai cosa stava combinando nel Cile di Allende e perché l’amico avesse appoggiato il golpe del famigerato Pinochet.

Non so se Gianni Agnelli fosse una sorta di novello “Lorenzo il magnifico”. Lo escluderei, sia per la sua azienda sia per l’Italia. Intendiamoci, l’Avvocato, come padrone industriale, non fu come il duro Angelo Costa, ma non fu neanche un Adriano Olivetti. Di fronte al montare delle lotte operaie e sindacali non ebbe atteggiamenti come quello di suo nonno Giovanni che nel ’20, durante l’occupazione operaia delle fabbriche, chiese a Giolitti l’intervento dell’esercito per riportare l’ordine. Il nonno senatore desistette quasi subito quando lo statista piemontese gli fece presente, provocatoriamente, che avrebbe dovuto cannoneggiare gli stabilimenti.
Nervi saldi
C’è da dire, a suo merito, che anche di fronte al terrorismo rosso che alla Fiat ebbe i suoi obiettivi e alcuni covi (sequestro Amerio 1973) e che nel 1977 uccise il direttore della Stampa, il giornale di famiglia, Carlo Casalegno, Gianni Agnelli tenne i nervi saldi e non invocò i colonnelli. Anzi, diventato Presidente della Confindustria, fece con Luciano Lama leader della Cgil l’accordo sul punto unico di contingenza. Ma ricordo nitidamente come prese male la solidarietà di Enrico Berlinguer agli operai in lotta davanti ai cancelli della Fiat nel 1980. In TV disse che quel gesto aveva dimostrato l’immaturità del Pci a governare l’Italia. Lui preferiva un’altra sinistra, che poi arrivò. Quella del governo D’Alema del 1998. Da senatore a vita gli votò la fiducia dicendo “oggi in Italia un governo di sinistra è l’unico che possa fare politiche di destra”. Prima aveva votato la fiducia anche a Berlusconi appena arrivato. Non c’è da stupirsi. Una grande azienda, com’era la Fiat, doveva per forza essere governativa con chiunque fosse al potere in quel momento. Tanti dei suoi profitti erano agevolati dagli aiuti dello Stato sotto molteplici forme. La spregiudicatezza era d’obbligo. Per la “Ditta”, allora diretta da Valletta, anche gli affari non avevano confini ideologici. Basti pensare alla fabbrica di auto realizzata negli anni ’60 in Urss a Togliattigrad. Nella seconda metà degli anni ’70 a chi gli chiedeva conto di essere ricorso ai soldi libici di quel terrorista di Gheddafi per salvare la baracca, l’avvocato rispose di stare tranquilli. Gheddafi non poteva fare brutti scherzi perché lo Stato italiano alla fin fine poteva sempre nazionalizzare la Fiat. La nazionalizzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti erano una caratteristica innata del capitalismo liberal-liberista italiano. Lo scherzo, invece, lo faceva lui a chi gli chiedeva di chi fosse la Fiat: dei lavoratori, rispondeva con soave sfacciataggine, perché, diceva, gli stipendi e i salari erogati superavano i profitti incamerati dai proprietari. Cioè, da lui e dalla sua famiglia.
Fusioni fallite
Come proprietario della Fiat non fu quell’aquila che oggi i suoi esaltatori amano descrivere. Utilizzò la rivoluzione tecnologica per mettere all’angolo gli operai, ma perse la corsa all’innovazione del prodotto. Capì che la Fiat doveva fondersi con altri giganti dell’automobile ma alla fine non riuscì nell’impresa. Riuscì solo a realizzare nuovi impianti in Brasile e in Polonia dove la manodopera costava assai meno che in Italia. Nell’impresa di trovare una grande casa automobilistica con cui fondersi sarebbe riuscito chi venne dopo di lui, Sergio Marchionne con la Chrysler, elevato a modello sociale e culturale dal Pd di Renzi. Ne furono contenti gli azionisti ma non i lavoratori italiani che videro ridursi i posti di lavoro. Mentre la sede della novella Fca – con la fusione con la Psa francese è diventata nel frattempo Stellantis con sede fiscale ad Amsterdam – sarà a Londra e Amsterdam. Anche le casseforti della famiglia Agnelli presero dimora nella città dei tulipani. Le tasse erano più convenienti e di fronte alle tasse la Patria passa in secondo piano.

Che l’Avvocato – come ha scritto in un tweet imbarazzante Valeria Fedeli, senatrice del PD, ex dirigente Cgil e ora nel board della Fondazione Agnelli – abbia “contribuito a portare l’Italia nel mondo moderno” è dubbio. E che “il suo sguardo, la visione, la curiosità, il coraggio e la capacità imprenditoriale restino un esempio, un modello” non sembra proprio. L’avvocato non si pose per nulla il problema. Era figlio di un capitalismo il cui tasso di riformismo era assai debole. Semmai cercò di portare nel mondo la Fiat, con magri risultati, come s’è visto. Dall’irrisolta “questione meridionale”, il nodo vero dell’arretratezza sociale e civile italiana e del riformismo capitalistico, la Fiat aveva tratto il vantaggio della manodopera a basso costo, gli immigrati, per il boom industriale; e quando Gianni Agnelli decise di aprire nel Mezzogiorno gli stabilimenti di Cassino, Melfi e Termini Imerese, ormai la festa era passata e il santo era stato gabbato. Le fabbriche furono cattedrali nel deserto. Ma in questo ci fu convergenza anche con la sinistra allora industrialista (Pci, Psi ecc.) convinta che la questione meridionale si potesse risolvere con l’industrializzazione dall’alto, con l’intervento diretto dello Stato e con gli incentivi ai privati, essendo andata a vuoto la riforma agraria.
Insomma, se uno deve avere un padrone, Gianni Agnelli non fu certamente tra i peggiori nel panorama dell’imprenditoria italiana, ma da qui a descriverlo come un grande imprenditore illuminato ce ne passa. Forse pensava di esserlo, visto il disprezzo, questo sì più che giustificato e “rinascimentale”, con cui guardava al berlusconismo e ai politici che il convento della seconda Repubblica passava, molti dei quali oggi tessono di lui lodi sperticate.
Ma per chi è di sinistra il punto è: uno deve avere per forza un padrone? E l’Italia non avrebbe piuttosto bisogno di un’economia sociale di mercato – quella prevista dalla Costituzione – ed ecologicamente sostenibile? E, a questo scopo, d’imprenditori moderni più che di padroni?
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