Gestire il pluralismo nel Pd e tenerlo unito: la sfida di Elly

Andrea Marcucci, ex-capogruppo del PD al Senato, con un’intervista alla “Verità” entra ufficialmente nella schiera di coloro che mandano messaggi neanche troppo velatamente minacciosi alla nuova segretaria del PD: attenti, non mi piace, vedo in giro troppe falci e martello! Va bene Gramsci, ma solo se è un “cimelio”! Aggiungendo, inopinatamente: “vorrei vedere Gobetti!”.

Ora, lasciando da parte le evidenti lacune del background culturale di Marcucci (se non si sanno le cose, ad esempio sui rapporti tra Gramsci e Gobetti, meglio non fare cattive figure), l’idea di “partito plurale” che è sottesa a questa posizione può essere comunque assunta come un sintomo della debolezza e degli equivoci insiti nell’impianto originario del Pd. Marcucci pensava, e pensa evidentemente, che il Pd a cui sì è iscritto fosse un partito, se non proprio liberale “all’italiana” (Marcucci cominciò la sua carriera politica nel 1992, come deputato del PLI), un partito “liberal” all’americana.

Eppure c’erano anche, sin dall’inizio, molti “comunisti” dentro il Pd: se ora gli creano tanto imbarazzo le falci e i martelli (o magari il fatto che nella sede del Pd fiorentino abbiano  riattaccato al muro la foto di Berlinguer), come ha fatto a stare, fino ad oggi, dentro questo partito, ricoprendo anche una carica di rilievo, come quella di capogruppo parlamentare?

Emergono qui tutte le incongruenze, non del pluralismo in sé, ma del modo con cui il Pd, sin dalla sua nascita, ha gestito la faccenda. Vediamo in che senso.

Sinistra radicale e partito plurale

Al di là del modo spesso strumentale con cui in questi giorni è stata posta la questione, occorre seriamente considerare alcune tesi. In particolare: data l’evidente connotazione “di sinistra”, qualcuno dice di “sinistra radicale”, che caratterizza la figura di Elly Schlein, come sarà possibile conservare al Pd quei caratteri di “partito plurale” che, sin dalle origini, avrebbe dovuto caratterizzarlo?

Uso il condizionale, perché in realtà la parabola del Pd, concepito come partito “post-ideologico” ha mostrato come le culture politiche fondatrici siano sempre più rimaste sullo sfondo, sempre meno influenti sul profilo e l’identità del partito: l’idea di un partito che si reggeva sulle “cose da fare”, e non su una visione condivisa (ciascuno poteva tenersi la sua, di concezione del mondo: il partito si univa “sui programmi”), presupponeva un’identità debole, non troppo marcata né in senso né in un altro.

Per tenere insieme tutti, era meglio – si diceva  – lasciare da parte riferimenti culturali troppo parziali o troppo impegnativi: sarebbero risultati un fattore di divisione. Tant’è che, nello Statuto del 2008, si rinunciò persino ad istituire una qualche Fondazione unitaria di cultura politica, o una Scuola di formazione, o un Centro Studi, per il partito: meglio stare alla larga da queste cose, il fantasma delle mitiche Frattocchie era troppo inquietante.

Un pluralismo fondato sulla spartizione

Il Pd, certo, è stato “plurale”, non c’è dubbio: ma in che senso? Meglio essere crudi e realisti: è stato un “pluralismo” fondato sulla spartizione dei ruoli di potere, nel partito e nelle istituzioni. Un partito in cui si compete per “un posto al sole”. Certo, con alcune segreterie come quella di Renzi, imperniata sul principio “the winner takes all”, molto conflittuali ed escludenti; e altre più cooperative e inclusive.

Ma in generale è stato un pluralismo, possiamo dire, fondato sulla reciproca indifferenza: liberi tutti di dire quel che passa per la testa, ovviamente, ma senza che ci siano stati luoghi e momenti di vera discussione politica, di approfondimento e analisi (ma avete mai sentito di riunioni degli organismi che abbiano fatto, negli anni, una seria analisi del voto, dopo le varie sconfitte? Altri tempi, ma ricordo che, quando nel 1977 il Pci subì una sconfitta in quel di Castellammare di Stabia, vi fu la convocazione urgente di un Comitato Centrale, se non ricordo male).

In sintesi, potremmo dire: un partito con una grande cacofonia di voci ma una sostanziale afasia politica. Ma, si può obiettare, c’è pur sempre un segretario a cui spetta decidere: anzi, un segretario sulla carta fortissimo, legittimato dal “popolo delle primarie” (espressione che reca chiari i segni di una retorica populista). E’ lui che deve decidere, tagliare “il nodo di Gordio”…Non è andata così.

Prendiamo un esempio concreto, a cui ho dedicato un po’ di spazio nel mio recente libro sul PD.

La mancanza di procedure interne

Giugno 2019, esordi della segreteria Zingaretti. Il nuovo responsabile nella segreteria per le politiche del lavoro, Peppe Provenzano, in un’intervista enuncia il suo programma: dobbiamo modificare il Jobs Act e riconoscere che è stato un errore aver abolito l’Articolo 18. Apriti cielo! Il capogruppo al Senato Andrea Marcucci (sempre lui, non ce ne voglia; ma evidentemente ci offre molti spunti) salta su e “stoppa” tutto.

E’  bene riportare il lancio con le sue dichiarazioni, (agenzia AdnKronos, 19 giugno 2019): “Ho il dubbio che Peppe Provenzano abbia sbagliato partito. Le sue considerazioni sul lavoro, sul PD, e sul centro, sono totalmente diverse da quanto ha detto ieri in direzione il suo segretario Zingaretti. Se qualcuno avverte il nuovo componente della segreteria, fa una cosa utile”.

Ora, si noti bene: il problema qui non è di stabilire chi avesse ragione, tra Provenzano e Marcucci (per quanto si possa osservare come la posizione ufficiale del Pd in campagna elettorale, nel 2022, sarebbe risultata più credibile se la revisione della posizione sul Jobs Act fosse iniziata a tempo debito).

Il problema è che il Pd non ha avuto in quell’occasione e su quell’argomento (come pure non le ha avute su tante altre questioni) procedure interne per stabilire quale fosse la tesi prevalente nel partito; non ha avuto occasioni per discutere e ridiscutere le linee complessive sulle politiche del lavoro e su tanti altri ambiti (ad esempio, la riforma elettorale: dopo la sconfitta del referendum renziano, si è capita quale fosse la linea del partito sulla materia?).

Ma, si obietterà, c’era pur sempre un segretario, che avrebbe ben potuto sentenziare: “ha ragione l’uno, o torto l’altro”. Ma non è accaduto: per il semplice fatto che una qualsiasi opzione avrebbe spaccato il partito. Ecco un esempio di come una “cacofonia” di voci si traduce in afasia politica, e in paralisi decisionale.

Il nodo discussione-partecipazione-decisione

E allora, per concludere. La nuova segretaria potrà “tenere insieme” il partito, non sulla base di un generico appello all’unità, ma attaccando radicalmente il nodo discussione-partecipazione-decisione. Posizioni diverse, anche molto diverse tra loro, dentro un partito che si dica e voglia essere “democratico” anche nelle sue procedure interne, possono coesistere solo se si produce una piena circolarità tra il momento del confronto e del dibattito politico, il momento della ricerca e dell’indagine, e il momento della decisione su una “linea” o su una specifica politica.

E’ l’inclusione nella fase di dialogo che precede la decisione ciò che consente anche a coloro che non vi si riconoscono di poterla comunque giudicare legittima. E’ una falsa alternativa, quella che alcuni commentatori interessati, stanno prospettando ad Elly Schlein: o “annacqua” le sue posizioni, per accontentare tutti, o – se tiene fermo il suo “radicalismo” – sfascia il partito…

Crediamo che Elly Schlein abbia ben presente questo rischio: e una sua frase, nell’intervista televisiva a Fazio, fa ben sperare: tenere unito il partito, ha detto, ma “senza rinunciare ad una direzione chiara”.  Il come ottenere questo, passa anche da una riforma del modello organizzativo e statutario del PD, e da una diversa concezione della partecipazione e della democrazia interna. Ci sarà certo modo di tornare ad occuparcene