Genova, ora bisogna ricostruire la città
E lo Stato

Fanno male le espressioni con cui tanti familiari delle vittime del crollo del ponte di Genova hanno rifiutato i funerali di Stato per chiudersi nelle proprie comunità, come avvertiti del rischio di finire in un vortice di strumentalizzazioni. Verrebbe da dire che hanno ragione, mentre echeggia lo stridore di applausi irrispettosi dell’unico sentimento che di fronte a quella tragedia dovrebbe recuperare il senso dello Stato, al di là del numero dei feretri raccolti per il doveroso omaggio del Paese. Fa male anche quella corrida di fischi (all’opposizione) e applausi al nuovo potere, che ha sopraffatto la voce del Presidente della Repubblica nell’invocare con convinzione il “paese unito” nel “rendere ancora più forte la severità nell’accertamento della verità e delle responsabilità che vanno perseguite con rigore”.


Ecco quale dovrebbe essere il compito dello Stato che non abdica di fronte a una sciagura “inaccettabile”. Ma lo Stato, che pure c’è – davanti a quel cratere nella ricerca dei dispersi, negli ospedali dove si assistono feriti che lottano ancora per la vita, tra gli abitanti che hanno perso la casa, persino laddove altre esequie si celebrano nel riserbo privato – è mortificato dalla incapacità di risposte alle angosciose domande del presente.
E il paese si divide, sull’uno o sull’altro orlo del baratro, avendo però davanti le rovine del passato, quasi senza accorgersi che si rischia ora che nel precipizio finisca anche il futuro.
È amara la lezione del giorno del lutto, quando la lacerazione del cordoglio lascia il passo alla elaborazione di quel che la collettività ha perso, in vite umane e in legami affettivi, ma anche nel tessuto sociale e nella coscienza civile.
Scagli la prima pietra, verrebbe da dire, chi non senta alcuna colpa per il delitto consumato ai danni della stessa concezione del servizio pubblico. In termini istintivi, i cittadini, che nel tempo hanno attraversato quel ponte, ne hanno vissuto il crollo come una minaccia al proprio diritto alla sicurezza. Eppure quell’emozione collettiva anziché unire viene piegata ad uso e consumo di una disputa inconsulta su regole che a tutti appartengono e in cui tutti dovrebbero riconoscersi.

Volenti o nolenti, è così che si fa perdere allo Stato la sua funzione di presidio della coesione civile. Può far comodo ridurre la contrapposizione sul piano economico e finanziario, tra pubblico e privato. Può far gioco raccogliere il fango e usarlo in una nuova guerra ideologica. Può servire scaricare le responsabilità delle scelte che si trascinano sulle grandi opere pubbliche. Ma, attenzione, il fango nel ventilatore può colpire anche chi lo immette. E comunque, al di là del vantaggio propagandistico, nemmeno la “giustizia fai da te”, invocata da chi si arroga la “difesa del popolo”, può autoassolvere chicchessia dalla delegittimazione inferta alla funzione pubblica.

Ci si deve chiedere, allora, se non sia proprio questo il cuore dello scontro politico e istituzionale, prima ancora che gli addentellati economici di una una concezione moderna dei servizio pubblico.

Discuterne potrà fors’anche costituire una ulteriore occasione di rissa, ma non per questo si può cedere all’impotenza. Ci sarà sempre un nuovo caso, un altro strappo, più alte grida. Ma deve pure arrivare il momento ed esserci una sede – il Parlamento, laddove la sovranità popolare trova la sua autentica legittimazione – in cui chiedere conto dell’accumulo di lacerazioni, della rincorsa di invettive e dell’accumulo di negazioni e contrapposizioni che scaraventa il rapporto con i cittadini al di fuori degli argini dello Stato di diritto. E dire alto e forte che sostenere lo Stato di diritto non significa difendere i Benetton, ma sottrarre quella ricerca della verità e della giustizia invocata dal presidente Mattarella dalla manipolazione delle regole del servizio pubblico che comprendono anche penali fino alla revoca della concessione per il privato ma non sottraggono il governo dal dovere della vigilanza.

Del resto, se nemmeno la dimensione del dramma di Genova riesce a contenere la strumentalizzazione, se il confronto è liquidato come retaggio del passato, se l’invettiva e la contrapposizione diventano la cifra lessicale e comportamentale del “contratto” di maggioranza, vuol dire che si sta cercando proprio di riversare la sintonia del “vaffa” nella pratica quotidiana di governo, per ideologizzare lo svuotamento della democrazia rappresentativa e radicalizzare l’occupazione del potere.
Non serve, allora, inseguire linguaggi e comportamenti che in nome del popolo puntano a dividerlo. Non basta attendere qualche scivolone di chi governa per ritrovare sorti magnifiche e progressive. In una condizione istituzionale sfibrata dalla transizione incompiuta e sottoposta a nuove scosse. È dalla consapevolezza degli errori di cui non si è riusciti ancora a fare ammenda, e dall’assunzione di quella responsabilità, che bisogna ripartire per recuperare un’alternativa credibile. Perché capace di ricercare con i cittadini uno Stato che non si arrenda.