Caro Galli della Loggia,
il virus se ne frega
della nazionalità

Da qualche tempo a questa parte, Ernesto Galli Della Loggia non cessa di ricordarci il valore della “identità” e di quella di “italiana” in particolare: rivolgendo questa raccomandazione soprattutto a quanti manifestano invece scarsa simpatia verso tutto ciò che sa di “identitario”. Ha continuato a farlo nonostante conosca bene, quanto noi, gli orrori che l’identità ha provocato in paesi come Serbia o Ruanda; ha continuato anche dopo aver visto gli sconquassi (per fortuna senza morti) causati in Spagna dall’affermazione della “identità catalana”; anche dopo che si sono verificati casi come quello di Patrick Crusius (e citiamo solo uno fra i tanti, ahimé) il quale, a El Paso, dopo aver ucciso venti persone in un supermercato ha dichiarato di averlo fatto per fermare l’invasione ispanica del Texas e porre fine ai “problemi di identità” che ciò crea; per non parlare della gloriosa impresa compiuta dal nostro Luca Traini, il quale, dopo aver sparato su alcuni immigrati ferendone sei, al momento dell’arresto si è gloriosamente avvolto nella bandiera italiana. Da quel bravo patriota identitario che era. E via e via, tra una nave equipaggiata da una non meglio definita “generazione identitaria” scesa in mare per impedire alle ONG di salvare i migranti, contro ogni principio umano e giuridico; e i decreti di un governo sovranista il quale, sempre animato da sentimenti “identitari”, procurava una vera e propria frattura antropologica nella nostra millenaria civiltà umanistica: trasformando in dovere “nazionale” il gesto di rifiutare l’approdo a naufraghi e migranti.

Identità nazionale e tortellino bolognese

A far cambiare idea a Galli della Loggia non sono bastati, temo, neppure gli aspetti ridicoli dell’identità. Perché spero che anche lui abbia trovato ridicola la levata di scudi in difesa della “identità culinaria” del tortellino bolognese, quando qualcuno ha proposto di riempirli con petto di pollo anziché con carne di maiale. Il fatto è, però, che ora la ruota ha girato. È arrivato il coronavirus e con lui la prova del fatto che Galli della Loggia aveva sempre avuto ragione. Il tono di quanto ha scritto lunedì sul Corriere della Sera sa quasi di trionfo. “Dove sono andati a finire – mi domando da giorni di fronte allo spettacolo dei tricolori esposti alle finestre, all’inno nazionale intonato da mille voci – dove sono andati a finire, che cosa hanno da dire quelli de «L’identità italiana non esiste»? quelli che si proclamavano orgogliosamente «Contro le radici»? (sono, alla lettera, i titoli di due libri in commercio)?” E poi “Dove sono gli intellettuali – in buona parte storici ahimè – che per anni sono andati sostenendo le idee di cui sopra? La verità è che l’attuale epidemia sta rivelando in modo esplosivo ciò che ogni persona non imbevuta di fantasticherie ideologiche ha sempre saputo. E cioè che quando arrivano i tempi in cui è questione di vita o di morte (mai espressione fu più appropriata) allora conta davvero chi parla la tua stessa lingua e condivide il tuo passato, chi ha familiarità con i tuoi luoghi e ne conosce il sapore e il senso, chi canta le tue stesse canzoni e usa le tue medesime imprecazioni. Che solo da quello puoi aspettarti (e anche esigere, non chiedere, esigere!) un aiuto generoso e immediato”. Insomma ci voleva il virus per capire quanto sia importante l’“identità”.

Solo un progetto sovranazionale può battere il virus

A quanto pare, Galli della Loggia pensa che i medici della Lombardia, i quali stanno in piedi diciotto ore al giorno per prendersi cura dei malati, lo fanno perché in loro vedono dei Bergamasc, dei Lumbard o degli Itagliani, gente che canta le loro canzoni e impreca nel loro stesso modo, e non – prima d’ogni altra cosa – delle donne e degli uomini che soffrono e muoiono. E viceversa, che i malati possono chiedere – anzi, esigere! – assistenza ai medici perché ‘siamo tutti Italiani’: e non perché il medico, seguendo Ippocrate, ha giurato “di curare tutti i suoi pazienti con eguale scrupolo e impegno […] prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica”. Che sono poi questi i valori profondi su cui qualsiasi comunità, compresa quella nazionale, deve prima di tutto fondarsi. Senza gli “uomini” non ci sono neppure gli Italiani, i Francesi, i Tedeschi – e guai anzi se gli Italiani o i Francesi vengono prima degli uomini! Comunque anche Trump è uno che ha fede nell’identità. Infatti continua a chiamare il coronavirus con il nome di “virus cinese”, così gli Americani sanno a chi dare la colpa. Francamente, non riesco proprio a capire come si possa fare l’elogio dell’identità – del “noi” vs. “loro”, della separazione insomma – nello stesso momento in cui l’OMS dichiara la pandemia, ossia la diffusione mondiale del virus; e si è capito chiaramente che, se tutti i paesi non si mettono assieme in un progetto sovranazionale, non riusciremo mai a fermarlo. Il fatto è che lui, il virus, dell’identità se ne infischia, continua a scorrazzare di qua e di là a dispetto di qualsiasi confine nazionale, barriera o bandiera che gli si pari davanti. Che anche lui abbia la testa “imbevuta di fantasticherie ideologiche”?

 

Maurizio Bettini, filologo classico, insegna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena e il “Department of Classics” della University of California at Berkeley. È autore, tra le molte opere, di “Radici. Tradizioni, identità, memoria” (Il Mulino, 2016) e “Homo sum. Essere umani nel mondo antico” (Einaudi, 2019).