Franco Giraldi regista di frontiera:
una vita dall’Unità ai Western

Il 2020 e la pandemia continuano a colpire. Nella serata del 2 dicembre è morto Franco Giraldi, regista, sceneggiatore, critico cinematografico e già docente del Centro Sperimentale di Cinematografia. Aveva 89 anni: era nato a Comeno (oggi Komen, in Slovenia, a pochi chilometri da Gorizia e da Trieste) l’11 luglio del 1931. È morto in un ospedale sul Carso triestino, dove era ricoverato da pochi giorni a causa del Covid-19.

Un signore austro-ungarico

Franco Giraldi non era famoso. Non era un regista-star, di quelli che fanno le capriole con la macchina da presa. In più, 11 anni fa aveva commesso un “errore” gravissimo dal punto di vista mediatico (punto di vista del quale, sia chiaro, non gli importava nulla): nel 2009 era tornato a vivere a Trieste, dopo una vita passata a Roma per lavorare nel cinema. A 78 anni aveva scelto la tranquillità, il ritorno a casa.

Eppure Franco Giraldi è stato un regista bravo e importante, un uomo coltissimo, un vero signore austro-ungarico. Era il vero testimone di un confine (quello tra l’Italia e la ex Jugoslavia) dove si sono consumati drammi epocali ma è anche fiorita una cultura cosmopolita memore del grande passato dell’Impero. Dopo essere stato partigiano a soli 14 anni, nel dopoguerra sfogò immediatamente la passione fondando assieme a Tullio Kezich e a Callisto Cosulich il primo Circolo del Cinema di Trieste. Poi si trasferì a Roma, dove un amico – Elio Petri, il futuro regista di Indagine e di altri grandi film – gli aveva trovato un lavoro. Tenetevi forte, cari lettori: il “lavoro” (con il quale Franco non si sarebbe certo arricchito) era scrivere recensioni di film su “l’Unità”, firmandole “vice”. Petri, che era di due anni più grande (del ’29), aveva collaborato al giornale per qualche tempo: poi proprio una sua inchiesta su un tragico fatto di cronaca (la morte di alcune ragazze a causa del crollo in un palazzo, a Roma: erano sulle scale in attesa di fare un colloquio per un lavoro di dattilografa) gli aveva permesso di entrare nel cinema, per un film che Giuseppe De Santis voleva trarre da quella storia. Il film, “Roma ore 11”, è un capolavoro del neorealismo e ha cambiato la vita a molte persone: nel cast c’erano Lucia Bosè, Elena Varzi, Delia Scala, Lea Padovani, Carla Del Poggio, tutte giovanissime; e Petri cominciò a lavorare come aiuto-regista, iniziando una luminosa carriera. Per Franco, il lavoro a “l’Unità” fu il primo passo.

Trovò anche lui lavori come aiuto-regista e sceneggiatore, lavorando con Gillo Pontecorvo (fa anche una piccola parte in “Giovanna”, 1956), Carlo Lizzani, Giuseppe De Santis, Giuliano Montaldo. Con Pontecorvo e Montaldo (e con il vecchio amico triestino Cosulich) condivise a lungo un mitico appartamento in via Massaciuccoli, sui quali tutti raccontavano aneddoti strepitosi. I più divertenti riguardavano Pontecorvo, che lì riceveva le telefonate da Mosca del fratello Bruno, il fisico che aveva scelto di lavorare per i sovietici. Ogni tanto squillava il telefono, si sentiva la telefonista dire qualcosa in russo e chi aveva risposto gridava: “Gillo, è tuo fratello!”. Mentre Gillo arrivava al telefono si sentiva benissimo il “tac” della registrazione, perché i telefoni erano sorvegliati e le conversazioni venivano registrate, probabilmente, sia a Mosca sia a Roma. Al che Gillo immancabilmente diceva: “Ciao Bruno, come stai? Quando sganciate la bomba? Mi raccomando, avvisami in tempo!”.

Il successo dei western

La svolta che avrebbe portato Giraldi alla regia avvenne nel ’64: gli offrirono di dirigere la seconda unità in un western italiano di serie C, intitolato “Per un pugno di dollari”. La paga era così così, ma si girava in Spagna e il divertimento era assicurato. In un’intervista su “l’Unità” del 19 agosto 2004, Giraldi ci raccontò: «Venivo da una lunga gavetta come aiuto ma sognavo di passare alla regia, e sbarcavo il lunario facendo il regista di seconda unità. È un lavoro divertente: si girano per lo più le scene d’azione, di massa, mentre i registi lavorano con gli attori principali. Avevo fatto la seconda troupe per due film di Sergio Corbucci, “Romolo e Remo” e “Il figlio di Spartacus”, entrambi insensati, ma era stato uno spasso.

Nel ’64 arriva una telefonata da Madrid: era Leone, alle prese un western. Partii immediatamente e arrivai in questa Spagna degli anni ’60 che era un paese incredibilmente affascinante. Volonté non si perdeva una corrida e Leone mi diede subito da lavorare con lui. Girai la scena dell’agguato al fiume, quando Ramon stermina i nemici con la mitragliatrice, e la scena notturna in cui i Baxter escono dalla casa in fiamme e i Rojo li aspettano per farli fuori. Sì, è curioso, ho girato le scene più efferate… forse, per me, che sognavo un tipo di cinema completamente diverso, è stata una cosa liberatoria». Evidentemente soddisfatti del suo lavoro, nonché abbandonati da Leone che fa loro causa, i produttori Papi e Colombo – la mitica Jolly Film – offrono a Giraldi la chance di debuttare nella regia. A condizione che faccia un western! «Papi e Colombo, sommersi dal denaro guadagnato con “Per un pugno di dollari” e desiderosi di fare subito un altro western, lo offrirono a me. Girai “7 pistole per i MacGregor”, che fu un grande successo, e come si usava allora mi scelsi un nome inglese: volevo mantenere le mie iniziali, F.G., e in omaggio all’attore John Garfield decisi di chiamarmi Frank Garfield. La sera della prima mi chiamano dalla produzione: dottore, è successa una disgrazia… io chiedo cosa diavolo è capitato, e mi dicono: hanno sbagliato la stampa, su tutte le copie il suo nome è scritto Frank Grafield… scoppio a ridere, dico “e chi se ne frega!”, e Grafield è rimasto, per sempre».

Il successo formidabile di quel film diede vita anche a un seguito, “7 donne per i MacGregor” (1967). Il primo film, diciamo così, d’autore fu “La bambolona” con Ugo Tognazzi, nel 1968. Un altro bellissimo film è “La rosa rossa” (1973, da un romanzo di Pier Antonio Quarantotti Gambini) ma i veri gioielli firmati da Giraldi sono alcuni film per la tv: “Un anno di scuola” (1977, da un romanzo di Giani Stuparich) e “La giacca verde” (1979, da Mario Soldati). E per la tv Giraldi ha lavorato parecchio, dirigendo ad esempio la serie “L’avvocato Porta” con Gigi Proietti (per Mediaset) e una serie, “Pepe Carvalho”, ispirata ai celebri romanzi di Manuel Vazquez Montalban. Nei film tratti da Quarantotti Gambini e da Stuparich, Giraldi ha potuto raccontare il proprio mondo, quella cultura trilingue (italiana, slovena, tedesca) sviluppatasi intorno a Trieste. Un mondo che riemerge anche nel film “La frontiera” (1996) e nella messinscena teatrale di “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, nella celeberrima riduzione scritta da Tullio Kezich. È sempre rimasto, orgogliosamente, un uomo di sinistra: il suo ultimo lavoro, nel 2009, è stato il documentario “Con la furia di un ragazzo. Un ritratto di Bruno Trentin”, dedicato al segretario della CGIL del quale era stato grande amico.