Fatmata, donna uccisa alla frontiera solo perché migrante

Partiamo da lontano, dal 20 aprile scorso. Una lancio dell’agenzia Ansa dava conto di un nuovo, più stringente accordo per difendere i confini europei in Nord Macedonia. L’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex)  sta inviando nel Nord Macedonia oltre 100 guardie europee da aggiungere alle forze dell’ordine locali per sorvegliare e pattugliare la frontiera. E’ il quinto accordo Frontex con una nazione extra Ue. Obiettivo dichiarato dal direttore di Frontex, Hans Leijtens, sostenere “ la gestione delle frontiere lungo i confini della Macedonia del Nord”, e rafforzare la sicurezza alle frontiere esterne dell’Ue.

Era il 20 aprile. Il 23 aprile un altro lancio di agenzia segnala che si è registrato un morto, proprio nella Macedonia del nord. Se non fosse stato il tam tam delle associazioni no border, a cominciare da quelle che operano in Grecia, la notizia sarebbe stata ingoiata dall’indifferenza sulla questione dei migranti.

Questa volta no. Intanto perché quel morto ha un nome e cognome. E’ una donna, una giovane ragazza nata in Serra Leone, dalla parte sbagliata del mondo, terra tormentata dai golpe e dalla povertà, ed era in viaggio da tempo verso l’Europa. Si chiamava Fatmata, aveva 23 anni, inseme al marito aveva appena attraversato il confine quando un colpo di fucile l’ha colta, uccidendola. E’ morta tra le braccia del marito, Abu Bakar.

Nel campo profughi, in Grecia

Fatmata era stata accolta con il marito dalla ong Second Tree, in Grecia, e i volontari l’hanno ben conosciuta. Così la raccontano: “La Grecia le aveva negato l’asilo, rendendola invisibile, una non persona. Ma Fatmata era una persona. Era calorosa, entusiasta e gioiosa. Conoscendola, nessuno avrebbe immaginato che viveva in un campo profughi. Aveva 23 anni. Era così piena di vita da commuovere: sempre disposta a condividere la sua energia e, soprattutto, a ballare. Ah, se le piaceva ballare. Ballava e cantava “a squarciagola”, come diceva sua sorella Bintia”.

Second Tree conclude: “Immaginatela così, Fatmata, perché è il modo in cui la ricorderemo noi di Second Tree. Era anche molto, molto innamorata di suo marito, Abu Bakar. Si conoscevano da quando erano bambini e spesso si chiamavano “il mio tutto”. Erano così visibilmente innamorati l’uno dell’altra che spesso, scherzosamente, commentavamo: “Spero davvero di trovare qualcuno che mi ami così!”. Due mesi prima di essere uccisa, Fatmata disse ad Abu Bakar di essere incinta. Non avevano né documenti né soldi, quindi non hanno mai fatto un test. Ancora oggi Abu Bakar non sa se il suo primo figlio sia morto con la moglie”.

“Abu Bakar”, ha gridato Fatmata prima di morire. Il marito piangendo l’ha presa tra le braccia. Poi, raccontano gli operatori di Second Tree, “è stato ammanettato, portato in macchina a diverse ore di distanza, detenuto per un giorno senza avere notizie della moglie. Infine gli hanno detto: se vuoi, ti lasciamo al confine, e te ne vai in Serbia. Naturalmente, lui ha deciso di restare: voglio giustizia per Fatmata, ha detto. Voglio che si sappia cosa le è successo”. Perché Fatmata era una persona, non un numero: una persona unica, preziosa. E ancora non c’è la pena di morte per il tentativo di passare una frontiera.

#JusticeForFatmata

C’è un avvocato che ora affianca Abu Bakar, e una comunità che sosterrà le sue ragioni. E’ lui che ha scattato la foto di Fatmata, quando sono partiti. Ricorda: quando le ha fatto la foto, lei ha detto: “ora tutte le porte ci sembrano chiuse, ma un’altra porta si aprirà per noi. Il futuro sarà bello”.
Giustizia per Fatmata. Come può la polizia sparare su una ragazza di 23 anni? Come è possibile che non si esiti a sparare? Dall’altra parte c’è un gruppo, una piccola comunità, persone che leggono la storia di Fatmata, tendono la mano per offrire aiuto, o condividono la loro tristezza, disperazione, indignazione. E comincia a girare l’ashtag #JusticeForFatmata e #GiustiziaPerFatmata.

Compaiono striscioni che ricordano Fatmata, nella foto quello di Salonicco. Si legge nei social la storia di Fatmata, che ricorda che i confini uccidono, e che la sicurezza dell’Europa ha un prezzo di sangue. Ne parla la @IuventaCrew, perché i confini sono uguali, per terra e per mare. Ne parlano i volontari di Samo. La ricorda Ecre, il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli, un’alleanza di 110 ong che promuovono i diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo.

“… Fatmata era una bella persona. Era calda, entusiasta e allegra. Se non lo avessi saputo, non avresti immaginato che viveva in un campo profughi – scrive Christina Ivanovska – Era piena di vita, sempre pronta a condividere la sua forza e la sua energia, e amava ballare, tanto. Fatmata, vorremmo che la tua danza non fosse finita, vorremmo poter ancora sognare di ballare con te. Onoriamo la richiesta di tua madre Mariatu, che ha detto piangendo: vi prego, non dimenticatela”.