Europa-Inghilterra
una storia difficile
Toto divisos orbe Britannos
I Britanni, divisi dal mondo intero
(Virgilio, “Bucoliche”, I, 67)
Un fattore a cui spesso si ascrive parte del merito della brillante espansione postbellica in Europa è la tendenza alla cooperazione e all’integrazione economica. Una volta di più possiamo constatare un netto contrasto con il periodo fra le due guerre, durante il quale le economie europee ereditarono dalla guerra vincoli e regolamentazioni e, dopo alcuni tentativi bene intenzionati a tornare una politica più liberale, li mantennero in vigore rafforzandoli: forte già negli anni ’20, l’individualismo egoista negli scambi internazionali fu ancor più rafforzato dalla depressione, nel corso della quale la politica monetaria e commerciale si ridusse a una sorta di sauve qui peut e gli scambi languirono in una selva di tariffe doganali, di quote monetarie o fisiche, di controlli della valuta e dei cambi, di conti speciali, di trattati bilaterali e di simili espedienti a cui amano ricorrere i governi.
Stavolta i governi alleati, ispirati fra l’altro da una ristretta ma autorevole pattuglia di economisti diventati funzionari dell’amministrazione pubblica, erano decisi a non ripetere gli errori della generazione precedente e, a partire già dal 1943, vale a dire parecchio tempo prima della vittoria, i tecnici economici delle potenze alleate e dei paesi neutrali interessati cominciarono a riunirsi per abbozzare le norme e stabilire le istituzioni di un’economia internazionale libera. La più importante di queste consultazioni fu la conferenza di Bretton Woods nel luglio del 1944, che propose la creazione di quegli organismi che dovevano poi diventare il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, stipulò accordi espliciti per la stabilizzazione dei cambi e per un rapido ritorno alla convertibilità*, e rivolse un invito alla riduzione delle barriere doganali e al mantenimento di un alto livello di occupazione.
Dopo la vittoria gli sforzi per giungere alla cooperazione e all’integrazione internazionale si moltiplicarono. L’America spingeva decisamente in questa direzione, sia perché teneva di essere la principale vittima di un ritorno all’autarchia, sia perché convinta che soltanto in questo modo l’Europa poteva rimettersi in piedi; vi era poi tutta una scuola di europei internazionalisti, con alla testa uomini come Jean Monnet, che nell’integrazione economica scorgevano non soltanto un fine sin sé valido, ma anche uno strumento di unificazione politica e una garanzia di pace. Questi sforzi diedero i loro frutti in tutta una serie di accordi e di organismi internazionali. Prima fra tutti l’Organizzazione europea per la cooperazione economica, creata nell’aprile del 1948 sotto il patrocinio americano per servire come stanza di compensazione internazionale per gli aiuti del piano Marshall. Membri dell’Oece furono inizialmente i sedici paesi europei destinatari del Piano, ai quali si aggiunsero in seguito la Germania Occidentale e la Spagna: nel 1960 vi aderirono anche gli Stati Uniti, il Canada e il Giappone, e la denominazione fu cambiata in Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). L’Oece fu concepita come una sorta di scuola per l’espansione e l’indipendenza economica: a questo scopo il Consiglio dell’organizzazione raccomandò la graduale limitazione dei contingentamenti delle importazioni (in quanto distinti dai dazi), a partire da una liberalizzazione iniziale del 50 per cento delle importazioni nel 1949 per giungere al 75 per cento nel febbraio del 1951 e al 90 per cento nell’ottobre del 1955.
Un ruolo decisivo per il successo di questa campagna di progressiva liberalizzazione del commercio internazionale fu quello svolto dall’Unione europea dei pagamenti (1950), che agì come camera di compensazione dei saldi finanziari fra i paesi membri e consentì ai paesi debitori di superare i periodi più difficili senza dovere accendere nuovi prestiti o ricorrere ad accordi bilaterali discriminatori. Quasi contemporaneamente all’Uep (posta in liquidazione nel 1958), sorse la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Il primo a proporne l’istituzione fu, nel maggio del 1950, l’allora ministro degli Esteri francese Robert Schumann, mirando all’obbiettivo essenziale di inserire l’industria pesante tedesca in un’organizzazione internazionale che potesse tenere sotto controllo l’intera produzione carbosiderurgica dell’Europa occidentale e quindi bloccare sul nascere qualsiasi rinascita del nazionalismo economico e del militarismo. I mezzi proposti erano drastici – la creazione di un’alta autorità sovranazionale con poteri di controllo effettivo delle imprese pubbliche e private dei paesi membri -, e fu proprio questa condizione che distolse gli inglesi dalla possibilità di aderire alla Ceca. L’Inghilterra non riuscì assolutamente a comprendere i bisogni e le opportunità dell’economia postbellica: il suo sguardo era rivolto indietro, i suoi sforzi diretti a restaurare lo status quo – l’egemonia della sterlina, i legami commerciali privilegiati con l’Impero e il Commonwealth, la protezione dei lavoratori inglesi da una dura concorrenza. Gli atti dei negoziati internazionali inglesi negli anni ’40 e ’50 si leggono come una litania di timori e di luoghi comuni che mascherano il rifiuto di occasioni promettenti ma rischiose. L’anacronismo è un peccato mortale per una nazione, e le sue penitenze si rivelano molto più dolorose delle scelte che inizialmente si sarebbero dovute fare.
Gli economisti non sono affatto concordi nel valutare le conseguenze dell’integrazione, e tanto meno lo sono per quanto riguarda la quarta e ultima creatura internazionale del dopoguerra, la Comunità economica europea, o “Mercato comune”, istituita col Trattato di Roma (firmato il 25 marzo del 1957 ed entrato in vigore dal 1° gennaio del 1958). La Cee sorgeva dalle stesse preoccupazioni che avevano dato vita alla Ceca: suo obiettivo era di estendere a tutti i prodotti la stessa libertà di commercio già conseguita per il carbone e per l’acciaio. L’Inghilterra ebbe l’opportunità di entrare nella Comunità economica europea allorché questa fu creata, ma considerò i termini di adesione proposti come incompatibili con le proprie responsabilità verso il Commonwealth e con la propria libertà d’azione politica. Inoltre è chiaro che essa sottovalutò l’importanza economica dell’Unione progettata.
La liberalizzazione nella Cee, che si aggiungeva a quella del decennio precedente, presumibilmente favorì un’allocazione più razionale delle risorse in seno alla Comunità e, in pari tempo, una più elevata produzione pro capite. Essa infatti, in linea di principio, poteva agire sostanzialmente in due modi: inducendo ciascun paese a specializzarsi in quei settori in cui esso godeva già di un vantaggio relativo, oppure incoraggiando in ciascun paese l’eliminazione delle imprese marginali e concentrando la produzione in unità abbastanza grandi da poter adottare le tecniche più progredite e realizzare le economie della grande produzione.
(David Landes, “Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri”, 1969)
* Possibilità di una moneta di essere cambiata in oro o in divisa estera pregiata
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