Essere genitori nei versi di Meozzi fuori da una comunità conservatrice
Il 2021 ha registrato un calo notevole delle nuove nascite in Italia. Le condizioni di vita già precarie della gioventù della penisola sono state ulteriormente aggravate dalla pandemia. È già difficile ritagliarsi uno spazio di autonomia dal nido di origine, figuriamoci costruire un nuovo nucleo familiare: che cos’è l’immagine di un bimbo che corre per la casa, se non un lusso per molti giovani, che a stento riescono a portare la propria dignità in una camera in affitto, la sera, dopo una giornata di lavoro?
L’unico modo per sfuggire al pericolo del patetismo, che scatta davanti a situazioni del genere, è riconfigurare tutto all’interno di una dimensione politica, nel senso più profondo del termine. Al riguardo, la poesia di Tommaso Meozzi permette di osservare come la genitorialità non sia solo una dimensione intima ed esistenziale, ma anche qualcosa che coinvolge il nostro senso di appartenenza a una comunità:
scrivo l’appuntamento col pediatra
con il foglio appoggiato
s’un testo di Platone,
hai già sconvolto
l’uso di oggetti e parole:
“tu” diventa “noi”,
“torna”, “tornate”,
le tue guance ben nutrite
mi strappano un sorriso
che imiti e forse
hai già scordato
La cura del più fragile
È nella dimensione della cura del più fragile che scopriamo la necessità del noi: tutti attraversiamo il tempo dell’infanzia, il tempo del totale abbandono all’altro, in cui la nostra stessa esistenza dipende dalle scelte che altri prendono per noi:
non ti dirò di affilare la lama
per farti strada in questa vita,
chiedo solo alla voce
di tornare alla sua origine
cesellare il tuo orecchio,
finché anche la notte significhi
Bisogna, però, stare attenti al tipo di noi che si vuole costruire: non si può ignorare come, oggi, l’immagine della famiglia sia intossicata dal discorso conservatore, che ha una visione economica della natalità, intesa come aumento delle forze della comunità. Il discorso conservatore è sempre positivo, tutto teso alla definizione di che cosa sia il noi, imbrigliando l’individuo in una rete di dover-essere per sentirsi pienamente parte della comunità. Meozzi, al contrario, mostra come il compito del genitore non sia quello di far avanzare il figlio lungo un determinato percorso, ma quello di impedirgli di prendere alcune strade: da un punto di vista prettamente quantitativo, dire cosa fare significa imporre una possibilità di vita, dire cosa non fare significa aprire l’altro all’infinito ventaglio delle scelte possibili, a patto di rinunciare ad alcune di esse (nel caso di Meozzi, alla via della prevaricazione).
Solo di fronte a una visione negativa della comunità si potrà permettere al nuovo arrivato di accogliere ogni aspetto dell’esistenza. La comunità conservatrice divide nettamente la luce dall’ombra, il noi dal loro, l’amico dal nemico, mentre Meozzi ci invita a non ignorare la notte: l’ignoto, lo straniero, il nuovo sono spazi oscuri da cui non bisogna fuggire, ma in cui allenare il proprio orecchio, al fine di trovare altri sensi, altri significati, altre vie da percorrere.
c’è stato un momento,
scaraventando il pallone a terra
mentre il vento mi carezzava la faccia
in cui ho capito
che avrei potuto uccidere?
Mio padre immobile a guardare
sentendo
che il gioco si faceva duro
La genitorialità, tuttavia, è anche qualcosa di inquietante: significa scatenare nel mondo forze di cui non si ha il totale controllo. In quest’ultima poesia, l’essere padre è accettare questa tragica compresenza di affermazione e negazione nell’esistenza del proprio figlio: egli può essere sia oggetto che soggetto di violenza. Il figlio deve affrontare il proprio gioco e il padre non può far altro che essere spettatore di ciò che accade: fare altrimenti significherebbe invadere il campo di gioco per imporre le proprie regole, i propri ritmi, le proprie scelte. La tragedia del padre è questa: doversi ritrarre di fronte al proprio amore, affinché il figlio non sia solo ciò che si è desiderato per lui.
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