Enzo “Titti” Denna, il tecnico del suono
che lanciò in Italia “Viva Chile”

Qualche giorno fa è mancato Enzo “Titti” Denna. Era un tecnico del suono, uno dei migliori che l’Italia abbia avuto. Lo conobbi all’inizio degli anni Ottanta, perché eravamo vicini di casa e avevamo amicizie comuni. Non credo che abbiamo mai parlato di politica, e probabilmente non avevamo le stesse idee, ma a volte capita di diventare amici con persone con le quali si sa che la politica non è proprio il terreno sul quale è opportuno confrontarsi, anche se si condividono altri valori. Titti naturalmente sapeva chi ero, e per questo mi raccontò un episodio della sua storia professionale. Era il 1973, e gli Inti Illimani si erano trovati in esilio forzato in Italia, dopo il golpe di Pinochet. Un discografico italiano, Armando Sciascia, che negli anni Sessanta aveva fatto fortuna con un’etichetta pop, la Vedette (quella dei primi Pooh ed Equipe 84, ma anche dei Doors), possedeva da tempo altre due etichette, I Dischi dello Zodiaco e la Albatros (diretta da Roberto Leydi), che pubblicavano importanti collane di canzone politica e di musica tradizionale; offrì un contratto per I Dischi dello Zodiaco al gruppo cileno, e si procurò anche copie dei dischi di altri esponenti della Nueva Canción Chilena, come Victor Jara e Violeta Parra, che pubblicò in Italia malgrado che i golpisti cileni avessero fatto distruggere i master di quegli album.

Sciascia, dunque, invitò gli Inti Illimani a registrare un album nei nuovi studi che aveva fatto costruire a Cologno Monzese, tra i più moderni d’Italia, a quell’epoca: c’era una macchina a sedici piste, quando in molti altri studi si lavorava ancora con otto o quattro. Il tecnico era Titti Denna. I dischi di musica tradizionale, fino ad allora, erano stati registrati con mezzi spartani: un po’ per la cronica indigenza delle etichette che li pubblicavano, un po’ per un pregiudizio nei confronti della tecnica che aveva pervaso il mondo della ricerca e del folk revival per decenni. L’idea era che un disco di quella musica dovesse essere una testimonianza di un’esecuzione dal vivo, possibilmente catturata nell’ambiente dove la musica era eseguita abitualmente, quindi secondo la prospettiva del testimone (il ricercatore), col microfono in mano (un microfono). Era tollerata qualche deviazione, “con giudizio”, nel caso delle canzoni nuove, create ed eseguite secondo i modi di produzione e di interpretazione del mondo popolare. In definitiva, la stereofonia era già un lusso.

Queste cose Titti non le sapeva, e quando vide gli Inti Illimani entrare nel suo studio piazzò un microfono davanti a ogni strumento e a ogni voce, e per di più incanalò il segnale di ogni microfono a una pista del registratore, rinviando la creazione dell’equilibrio fra i vari suoni al momento del missaggio. Qualcuno avrebbe potuto dirgli che stava violando delle norme, e soprattutto stava distruggendo la naturalezza e l’autenticità di quei suoni, nel tentativo di ricrearla artificialmente, con mezzi tecnici. Ma (per fortuna) quel qualcuno non era negli studi di Cologno, in quei giorni. Uscì Viva Chile, ed ebbe un successo inaspettato: gli Inti Illimani divennero protagonisti delle classifiche discografiche, con quello e con gli album successivi. Molti comprarono quei dischi per affetto e solidarietà, ma molti altri perché le canzoni erano belle e i suoni convincenti: per la prima volta un disco “folk” suonava così bene, con strumenti “poveri” come il flauto di Pan o il charango che erano presenti, “pieni” e penetranti come un sintetizzatore o una chitarra elettrica. Gli altri discografici si resero conto, con sorpresa, che esisteva un vasto mercato per la canzone politica, per la musica popolare: cominciarono a guardare a quel mondo con meno snobismo, con meno scetticismo, digerendo anche le loro prevenzioni per la politica. Poco dopo che la Nueva Canción Chilena aveva fatto il suo ingresso in Italia, si cominciò a parlare di Nuova Canzone Italiana.

Basterebbe questo per ricordare Titti Denna. Sette anni dopo (più o meno all’epoca in cui l’ho conosciuto) lo troviamo in un piccolo ma attrezzato studio di Milano, nella periferia Est: è lo studio di Alberto Radius, chitarrista, collaboratore di Lucio Battisti, ex-membro dei Formula Tre. Lì Titti registra gli album di maggior successo di Franco Battiato: Patriots, La voce del padrone, L’Arca di Noè, Orizzonti Perduti, Mondi lontanissimi. Devo a Titti di avermi portato al Palalido di Milano ad ascoltare il Battiato de La voce del padrone, un’esperienza illuminante, la rivelazione della voce di un’Italia nuova (il Battiato “sperimentale” degli anni Settanta lo conoscevo benissimo, ma a quel punto pochi ancora conoscevano il Battiato cantautore). Devo dire che con Titti non parlavamo molto di musica: giocavamo a fare i nerds, lui mi spiegava un po’ di trucchi di studio, io gli portavo da Londra i videodischi laser: era uno dei pochissimi in Italia ad avere un lettore, ci guardavamo Dunecol suono in surround. Intanto lui lavorava per Radius e per il gruppo di artisti prodotti da Angelo Carrara: Alice, Giuni Russo, Eugenio Finardi, ma anche Claudio Lolli e i Matia Bazar. Pensate al suono della musica italiana dei primi anni Ottanta: quel suono lo creò Titti Denna. Poi credo che avesse avuto un litigio con Radius, al punto che quando di recente Sky Arte ha trasmesso un programma monografico su La voce del padroneDenna non è stato mai nominato, cancellato come in certe foto dei tempi di Stalin: immagino che la cosa lo abbia molto addolorato, era già malato. Negli ultimi anni era stato il tecnico residente degli studi (sempre a Cologno Monzese) di Radio Italia: in un’epoca in cui gli studi di registrazione “di una volta” sono quasi scomparsi, era fiero del suo immenso mixer a 72 canali (credo), con cui mandava in onda le dirette dei protagonisti dell’Italia pop.

Un uomo serio, bravo. Di quelli che ci mancano.