Repubblica si illude
se pensa di usare
Di Maio contro Salvini

Con “Repubblica” che piazza in prima pagina, con titoli enfatici (“Salvini non è la legge”), interviste fiume a Di Maio, sembra che sia arrivato il contrordine di rito. Dopo il cambio del direttore, il nuovo corso parrebbe questo: bisogna intraprendere una strategia del dialogo con il M5S, per evidenziarne la diversità rispetto alla Lega e evocare così un fronte repubblicano per arrestare nei collegi maggioritari, disegnati dal Rosatellum, la lunga marcia che porta Salvini da Pontida a Palazzo Chigi.

Una tale strategia di disgelo, verso la componente maggioritaria del governo “più a destra della storia repubblicana”, pare irta di insidie, irrealistica nelle sue premesse e dubbia nei suoi risultati. Narrando che lo scontro più rilevante oggi in atto è proprio il duello che vede impegnati i due partner dell’esecutivo, e che il giusto sta dalla parte di Di Maio che da solo resiste alla volontà di potenza leghista, l’emorragia dei cinquestelle viene al momento arginata.

Non sorprende che la conseguenza della rappresentazione dei pentastellati come gli antagonisti più rudi della destra (con la quale gestisce governo e sottogoverno) sia quella di bloccare la velleità di Zingaretti di attrezzarsi per la conquista dello spazio politico dell’alternativa. Non è un caso che l’ascesa del Pd si sia ben presto esaurita, dopo una iniziale ripresa del gradimento a ridosso delle primarie. Si tratta di un effetto preventivabile del credito concesso dalla stampa “amica” all’idea di una radicale alterità ideale tra M5S e Lega.

Dal punto di vista tattico, questo soccorso ai cinque stelle in versione antifascista (non fu Gillo a sentenziare che “il 25 aprile è morto”?) rischia di erodere una delle condizioni per la ripresa di una politica democratica in Italia: la sconfitta del governo gialloverde come fenomeno di reazione populista che comporta una palese deriva illiberale dell’ordinamento. Stupisce che filosofi e politici vicini al Pd non colgano l’effetto distruttivo della raffigurazione della politica come scontro Lega-5Stelle. La riduzione della politica a contesa tra i due populismi comporta la scomparsa dell’opposizione resa invisibile dai media, cui non resterebbe altro che la manovra tattica per strappare dal governo il giallo e ingaggiarlo in una guerra contro il verde padano.

E’ evidente che se dopo gli scandali, l’invito alla bancarotta preferenziale, l’incriminazione del governo per sequestro di persona (Di Maio minacciava di negare 20 miliardi all’Europa se non si fosse piegata alle richieste gialloverdi sui naufraghi), il fallimento delle politiche economico-sociali, il dilettantismo nella politica estera, alle europee il M5S tiene, si complica molto l’uscita dal momento populista come deviazione semantica, politica della manipolazione, imposizione della decadenza repubblicana.

A maggio lo scontro fondamentale non può ancora essere quello di una coalizione pronta a disarcionare Salvini ma verte sulla tenuta del M5S, e, in caso di conferma della sua rilevanza sistemica, il cammino per una riprogettazione della sinistra come polo alternativo si perde in un sentiero interrotto. È del tutto scontato che se Di Maio arresta la crisi del non-partito riuscendo a vendere al pubblico ora scettico la credenza che proprio lui, governando con Salvini, è anche il solo argine al capitano in mitraglia, elementi dissolutivi si trasferiscono nel campo minato della sinistra, destinata all’ulteriore implosione.

Non è solo di natura tattica però l’errore di abboccare alle schermaglie elettorali in corso tra Di Maio e Salvini, tra mitra e bombola, cadendo nelle trappole preparate dalle ingannevoli sirene di un possibile recupero del M5S alla ragione del progressismo. Solo chi non ha ancora compreso i nodi fondamentali della natura del non-partito populista (indifferentismo ideale e programmatico) può immaginare una alleanza riparatrice e quindi ignorare i fatti incontrovertibili per cui il non-partito grillino in Europa sta con Farage, in Italia con Salvini. Si tratta di decisioni cruciali, di portata sostanziale che non si azzerano d’incanto ma richiedono contrattazioni assai insidiose con la proprietà aziendale del movimento e i suoi collegamenti internazionali (economico-finanziari e politici).

Complicata, e destinata a rivelarsi un fuoco di paglia dopo le liti utili per congelare la deriva, e per questo messe in scena nel mese della campagna elettorale dal conformismo mediatico, sembra l’opera di sganciamento in parlamento delle truppe grilline da quelle leghiste. Che alle venature autoritarie del governo, l’opposizione risponda sognando una santa alleanza con la componente maggioritaria del bicolore, cioè con il mondo definito del “gerarca minore”, rientra nel teatrino politico dell’assurdo più che nell’esercizio del realismo politico.

Il campo di sinistra ha due strade: quella di dissolversi ulteriormente inseguendo il miraggio andare, a ranghi ancor più ridotti, verso un’intesa subalterna con un M5S anch’esso sensibilmente dimagrito oppure l’altra tendente a recuperare pazienza, apertura analitica guardando non a come vincere subito (con alchimie che coprono una grande illusione peraltro destinata al fallimento prevedibile) ma alle condizioni per la riprogettazione di una democrazia costituzionale. Nelle giunture critiche, la migliore tattica è sempre la strategia.

E quindi la vocazione governista con le sue scorciatoie di una pax grillina, solo in apparenza sorrette dal calcolo realistico delle forze, è il peggiore pericolo. Se non costruisce, sul piano della cultura e dell’iniziativa politica e sociale, una alternativa radicale alle manipolazioni organiche del momento populista, la sinistra è destinata all’oblio e, ora che Repubblica certifica che “i governi sono ufficialmente due”, a finire quale docile scudiera degli statisti del calibro di Conte, Toninelli, Castelli, Crimi e Bonafede.