E se facessimo a meno
degli applausi
nei talk show?

Una proposta. Solo una proposta. Un’idea. Non certamente il suggerimento di un’imposizione e men che mai un desiderio di censura. Ma perché, la butto lì, non si mandano in onda i talk show politici senza pubblico? Senza quell’assordante corollario di applausi sollecitati costantemente da un’affermazione e il contrario di essa nell’ambito dello stesso confronto. Una provocazione, ecco l’applauso. Un’idea balzana e irrealizzabile, una promessa senza futuro, le mani schioccano. Clap clap ogni volta che qualcuno trascende. Nell’abito della durata di un programma tutti hanno ragione e hanno torto allo stesso modo grazie alla quota di rumoroso consenso raggiunto nel chiuso di uno studio televisivo.

E’ difficile immaginare lo scrosciare di un applauso mentre parlavano in tv Aldo Moro o Enrico Berlinguer. O mentre Enzo Biagi tesseva la storia del Paese con pacate parole segnate da alcun desiderio di rivalsa. Persone come loro il consenso se lo guadagnavano facendo funzionare il cervello e anche il cuore senza la necessità di ricorrere alla barbarie di certe parole, decisioni, atteggiamenti, anche scherno.

Ora la politica, se tale vogliamo considerare lo sconclusionato circo delle idee che quotidianamente ci affligge, è diventata spettacolo. E le messe in scena hanno bisogno del consenso rumoroso di un applauso che però, se non ritmato da un consenso conseguenza di un convincimento, risulta indubbiamente fastidioso. Inopportuno. Condizionante nel peggiore dei modi. Superfluo. Non spontaneo.

E’ il caso di riflettere sulla reazione di Corrado Formigli quando durante la sua trasmissione Piazzapulita tal Simone ha affermato senza timore e tra gli applausi che “i rom non sono uguali”. Per il conduttore “l’applauso sul fatto che un rom non è cittadino italiano è qualche cosa che a me fa paura. Cosa sta succedendo in questo Paese? E quanto è pericoloso alimentare questo tipo di opinione e pensiero? Quanto? Mi dissocio. Non si può applaudire qualcuno che certifica che due esseri umani non sono uguali”.

Fare il pubblico o l’opinionista è diventato un lavoro non a costo zero. I secondi, veri stakanovisti dell’interpretazione di parte delle proposte del politico in auge e di quelle di chi osa contraddirlo, sono in video dalla mattina alla sera. Di questi tempi anche per guadagnarsi una candidatura e fare il salto di qualità passando da anonimo a testa di serie. Gli altri, quelli dell’applauso, tranne i pochi supporter che al politico di turno in alcune trasmissioni è concesso portarsi, entrano a far parte del pubblico di un programma tv seguendo procedure precise, le regole dure del casting per arrivare, se si è molto disponibili, a guadagnare fino a seicento euro al mese.

Su Money.it si legge che per fare il pubblico bisogna essere maggiorenni, educati, pazienti e disponibili. Le regole da seguire sono precise: non indossare abbigliamento con loghi di case di moda riconoscibili, non masticare chewing gum, non alzarsi nemmeno se si è fuori inquadratura, non parlare con il vicino, non usare il cellulare, seguire le indicazioni dei suggeritori. Non esiste un solo ruolo da svolgere. Si può essere clapper, figurante, tappabuchi, pubblico parlante. Battere le mani per sbarcare il lunario. E nessuno vuole mettere in discussione questo diritto.

Ci sono però centinaia di trasmissioni in cui poter sostenere con l’applauso, rumorosa e ormai sembra imprescindibile forma di consenso per la politica da più di una ventina d’anni a questa parte, l’esibizione di questo o di quello. Cantanti, attori, comici, quiz e talent. Trasmissione di intrattenimento quante ne volete. Forse a ritrovare la traccia di una politica seria e costruttiva, con meno battute e provocazione e più considerazione dei bisogni della collettività, potrebbe contribuire un applauso in meno e qualche idea in più. Un’aspirazione troppo audace?