Barcellona, ha fallito
la diplomazia

Comunque vada a finire la prova di forza tra Barcellona e Madrid, una tragedia in Catalogna è già avvenuta. E non si tratta soltanto delle violenze, intollerabili, cui si è abbandonata la Guardia Civil agli ordini del governo di Madrid da cui, evidentemente, erano arrivate indicazioni di usare le maniere più forti. Al di là delle cariche, degli arresti, dei feriti (e speriamo nulla di più), la tragedia è il fallimento, l’ennesimo, della civiltà della diplomazia e della cultura del dialogo. Speriamo che quando si trarrà il bilancio di quanto è avvenuto in questi giorni, da tutte e due le parti si abbia l’onestà di riconoscere gli errori e di trarne lezione. È un dovere che tanto gli indipendentisti catalani che le autorità di Madrid hanno non solo con se stessi, ma con tutta la comunità internazionale.
Gli indipendentisti e la Generalitat catalana hanno sbagliato a indire un referendum non consultivo ma immediatamente attuativo senza porsi il problema che in tal modo mettevano Madrid di fronte all’alternativa tra reagire con la forza, come poi hanno fatto in modo dissennato, o perdere la faccia e creare un pericolosissimo precedente. Ma il governo spagnolo ha sbagliato a rispondere cercando di impedire con forza brutale quella che era, a quel punto, l’affermazione di un diritto democratico all’espressione della propria volontà. Se si fosse ragionato con sangue freddo, prima, le vie d’uscita ci sarebbero state. Rajoy e il suo governo avrebbero potuto decidere di correre il rischio e non ricorrere alla repressione. Non era un rischio insensato. A Madrid si poteva contare sul fatto che la partecipazione alle urne non sarebbe stata plebiscitaria: tutti sanno e tutti dicono, anche a Barcellona, che c’è una buona parte di opinione pubblica nella regione che non condivide l’obiettivo dell’indipendenza assoluta e tiene invece all’unità dello stato spagnolo. Lo si è visto anche alle elezioni e nel precedente referendum solo consultivo. E’ probabile che stavolta a votare sarebbero andati solo gli elettori convinti e determinati e che quindi dalle urne sarebbe uscita una forte maggioranza di sì, ma se l’affluenza fosse stata bassa, come gran parte dei sondaggi preventivi lasciava prevedere, Madrid avrebbe avuto facile gioco a sostenere che in Catalogna c’era una forte percentuale, forse (magari fuori di Barcellona) addirittura una maggioranza di “unionisti” che si erano astenuti ma della cui opinione si doveva tener conto. Notoriamente la storia non si fa coi “se”, ma è ragionevole pensare che ci fosse comunque un negoziato da fare.
Perché invece di fare il viso dell’arme e insistere soltanto sulla incostituzionalità della consultazione il governo, che aveva dalla sua i grandi partiti, i popolari e i socialisti e la neutralità di Podemos, non ha raccolto la sfida e cercato consensi tra gli indecisi? È evidente che attuando la prova di forza le autorità di Madrid si sono giocate questi margini di manovra. Vedremo quanti saranno quelli che sono riusciti ad andare comunque a votare e avranno a questo punto votato quasi certamente tutti per il sì, ma è evidente che se si tratterà di una minoranza, i promotori del referendum potranno (ragionevolmente) sostenere che è stata solo la violenza della Guardia Civil a tenere le masse lontane dai seggi. Il governo Rajoy ha fatto scendere sulla Catalogna la classica notte in cui tutte le vacche sono nere.
Dall’altra parte perché i capi degli indipendentisti hanno insistito in modo così determinato sul fatto che il referendum non era consultivo ma attuativo? La Generalitat e i partiti indipendentisti sanno benissimo che anche se la decisione politica viene presa perché si arrivi alla secessione vera e propria è necessario comunque un periodo transitorio, durante il quale si negoziano modi e tempi della separazione: Brexit docet. Eppure, a parte qualche lodevole eccezione, si sono espressi tutti come se l’eventuale vittoria del sì fosse la conclusione e non l’inizio di un processo. È evidente che questo atteggiamento, oltre a creare illusioni tra i più entusiasti e i meno provveduti, ha irrigidito ulteriormente il non possumus di Madrid: una cosa è prevedere un periodo di transizione durante il quale si tratta e ci si prepara, un’altra cosa è pensare di veder sparire in un giorno e una notte un assetto statale creato da secoli di storia e con una solida trama istituzionale. Il vuoto fa paura a tutti.
Ecco, l’impressione è che, al di là del merito se sia giusto o meno che la Catalogna non faccia più parte della Spagna, si siano scontrate due rigidità, due posizioni preconcette, due estremismi. Non c’è stato spazio per le voci ragionevoli, che pure c’erano ma si sono perse nelle urla delle folle e nel machismo dei discorsi pubblici e dei comunicati ufficiali. E proprio questa è la tragedia. Tra Madrid e Barcellona è stato messo in scena un modo di concepire i rapporti tra le diverse realtà territoriali, tra le regioni e gli stati, ma anche tra gli stati e gli stati e tra gli stati e le entità sovranazionali basato non sulla diplomazia e sul dialogo ma sulla forza e sulla purezza delle proprie istanze identitarie, sulla coscienza di sé che non alza l’occhio sugli altri e le loro ragioni, che pure esistono. Sull’egoismo, se vogliamo dirlo in una parola.
Guardiamoci intorno: questo modello è certo sempre esistito, ma sta (ri)diventando vincente. Non c’è solo lo scontro tra Kim Jong Un e Donald Trump. A Mosca c’è un regime autoritario e odioso, ma bisognerebbe chiedersi se il consenso imperiale che circonda Putin non sia anche il frutto di anni di politiche di “accerchiamento pacifico” praticate dagli Stati Uniti e dalla Nato. L’unificazione tedesca fu concordata con la condizione negoziata tra Kohl e Gorbaciov che la Nato sarebbe restata lontana dai confini russi. Oggi si fanno le esercitazioni occidentali (anche con i nostri soldati) nelle repubbliche baltiche e si pensa di accogliere nell’alleanza l’Ucraina e la Georgia. Anche le crisi regionali hanno sempre più questa caratteristica: prima si fanno gli atti di forza, poi, caso mai, si negozia. La dottrina del peacekeeping è diventata una dottrina del dopo.
Se il problema è questo, bisognerebbe che si cominciasse a ripensare all’insieme degli strumenti internazionali. Nessuno, neppure a sinistra, parla più di riforma dell’Onu e se c’è una cosa che ha brillato, in questa crisi catalano-spagnola, è stata l’inadeguatezza delle istituzioni europee, che hanno balbettato una scontata ma abbastanza inutile solidarietà con Madrid senza porsi minimamente il problema di tentare la mediazione in una crisi che, oltretutto, potrebbe sfociare nella prima modificazione nella storia dell’Unione dell’assetto dei confini al proprio interno.
L’Unione così com’è è inadeguata a gestire le crisi negli stati e tra gli stati? Ridiscutiamo i Trattati. L’Onu è un baraccone paralizzato dai diritti di veto dei Grandi? Ricominciamo a batterci per la riforma del Consiglio di Sicurezza come, in tempi ormai abbastanza lontani, parve di voler fare anche l’Italia. Le Nazioni Unite non sono votate all’impotenza eterna se proprio qui da noi, in Alto Adige, c’è l’esempio di una crisi che cominciò come quella catalana ma finì, con la garanzia dell’Onu, con uno dei migliori esempi di convivenza e di tutela di tutti gli interessi.
Perché non invitiamo Puigdemont e Rajoy a Bolzano?