Due naufragi e a Rosarno si spara
al nero: un morto
“La pacchia è finita”, Salvini dixit
Due fatti fanno eco alle prime esternazioni del ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Come fosse in piena campagna elettorale, il leader leghista faceva sapere che la Sicilia non può essere il centro di accoglienza dell’Europa, che i migranti sono un affare per qualcuno e una disgrazia per tutti. Che aumenteranno i rimpatri e che bisognerà andare in tutto il terzo mondo a fare accordi perché la gente non parta proprio, che qui il lavoro non c’è neppure per gli italiani.
E intanto la notizia di due naufragi arrivava in Italia. Nel primo, il più grave, al largo della Tunisia, sarebbero affogate 35 persone e molti sono i dispersi. Nel secondo, al largo della Turchia, sarebbero morte nove persone, di cui sei bambini. Evidentemente le traversate nel Mediterraneo sono diminuite, ma sono diventate più pericolose.

Il secondo fatto, ancora più pericoloso del primo, è avvenuto nella piana di Rosarno, a poca distanza dalla tendopoli di San Ferdinando che accoglie in modo incivile le migliaia di braccianti che arrivano per le raccolte agricole, pagate 3 euro l’ora (a volte meno) al nero e senza alcun diritto, la baraccopoli su cui Medici per i diritti umani hanno appena cercato di accendere un faro. E’ proprio qui, nella zona che ha eletto Salvini senatore, che tre persone con la pelle scura – ma il sindaco e gli inquirenti si sono affrettati a dire che non si tratta di un attacco xenofobo o razzista – sono stati il tirassegno di un uomo dalla pelle bianca sceso da una Panda. Due feriti e un morto, il maliano Sacko Soumali, attivista sindacale. “Clandestini, è finita la pacchia” aveva detto Salvini e qualcuno forse gli ha dato retta, attacca l’Usb, il sindacato dove militava Sacko Soumali.
Perché quegli spari? I tre stavano cercando, in una fabbrica abbandonata, latte e legni per costruirsi una baracca, presumibilmente accanto alle altre a San Ferdinando. Fossero pagati regolarmente, potessero accedere alla cassa integrazione agricola, nessuno degli abitanti della baraccopoli resterebbe a vivere lì, senza acqua e elettricità. Fossero pagati regolarmente i braccianti potrebbero magari farsi raggiungere da moglie e figli, affitterebbero una casa, non sarebbero costretti a vivere in baracca. Invece il sistema di produzione, dominato dalla Grande distribuzione, vessa gli agricoltori, soprattutto i piccoli, che si rifanno sull’ultimo anello della catena, i braccianti.

Ma Salvini, che pure è venuto recentemente a Rosarno a ringraziare i suoi elettori, della tendopoli di San Ferdinando e delle ragioni di questa povertà coatta non si vuol affatto occupare. E ha delegato al ministero dell’agricoltura Gian Marco Centinaio, leghista doc e molto sprezzante verso il Mezzogiorno. Vedremo cosa farà.
“Al governo non c’è Batman, né Robin”, ha detto ancora Salvini. Eh sì, lo sapevamo: Batman e Robin avrebbero raccolto un po’ più del 17% della Lega. E poi i due supereroi di solito non se la pigliano con i deboli. “Lo sappiamo che il lavoro non c’è neanche per i ragazzi italiani. Non tutti vengono a cercare a lavoro” dice Amir. E’ iraniano e cristiano, nel suo paese c’è una persecuzione contro i cristiani, non esplicita ma non per questo meno implacabile. E’ un ingegnere, una persona colta, che ha andandosene dal suo paese ha perso status, famiglia e il piacere di parlare la sua lingua, qui si arrangia con lavori precari. Eppure non rimpiange la sua scelta: “C’era un prezzo da pagare e l’ho pagato – dice – avrei potuto restare laggiù solo a costo di abiurare, nascondere la mia fede. Al nuovo ministro vorrei solo ricordare la bellezza delle parole di Gesù, io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato… Ma forse è inutile, non credo che sia cattolico”.

Shaila non vuol commentare le frasi del neoministro leghista. Bengalese, suo marito è un commerciante, sa quanto è dura la vita di lascia patria e famiglia, quanta fatica costi l’inserirsi in una città straniera. Cosa sia la Lega non lo sa ma è decisa: quando muore qualcuno, ucciso o annegato, le parole non hanno cittadinanza. Bisogna piangere, e cercare di fare in modo che quelle morti non si ripetano. Sarà difficile, Shaila, ma hai ragione, bisogna tentare.

Nella scuola di italiano frequentata da Mamadou l’altro giorno hanno letto e studiato un testo singolare, Mamadou lo ricorda bene. Era la relazione al Congresso americano dell’ispettorato all’immigrazione, tutto dedicato agli immigrati italiani, nel 1912. Un testo che trasforma la povertà in colpa, i pregiudizi razzisti in buon senso. Ma leggerlo oggi, cento anni dopo, fa impressione: “Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti”. E continua: rissosi, violenti, con il coltello in tasca, si dice che siano stupratori abituali, “Vanno privilegiati i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare”, gli altri vanno rimpatriati. Perché, conclude “La sicurezza deve essere la prima preoccupazione”. Ma senti, dice Mamadou, “sono passati più di cento anni. Eppure, da chi ho appena sentito queste stesse parole?”.
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