Mario Draghi
non è un
tecno-populista

Che la categoria di tecno-populismo sia utilizzabile nell’interpretazione dei processi politici italiani pare indubbio. Bene fa perciò Nadia Urbinati a saggiarne l’applicabilità anche alla odierna fase. Già dieci anni fa la stessa nozione (“Il tecno-populismo di chi gioca allo sfascio”, l’Unità del 24 febbraio 2012) fu impiegata per cogliere la metamorfosi del governo Monti che, da espressione di una tregua istituzionale, si tramutava in un progetto politico per sopportare una sfida aperta al Pd bersaniano. Esplicita era la sua condanna dei partiti come inaffidabili, la sua volontà di imporre riforme a prescindere dal consenso sociale denunciato anzi come un ingrediente superfluo e da rigettare.

Il tentativo plebiscitario di Monti

Con Monti cambiava lo schema che, in parte Amato e soprattutto Ciampi, aveva impostato. In un quadro politico che passava verso una strutturazione di tipo bipolare, nella gestione delle grandi questioni economico-sociali veniva adottata una integrazione della democrazia maggioritaria tramite una esplicita procedura consensuale-concertativa. Il disegno di Monti, di proporsi come un tecnico che mirava ad una legittimazione plebiscitaria ex post, nasceva dalla volontà di archiviare il bipolarismo ormai consumato con la crisi del berlusconismo e di imporre un riformismo dall’alto che in nome della sacralità della lettera della Bce spezzava ogni riferimento al consenso sociale.

Con un avallo completo della grande stampa e dei media unificati, il “podestà forestiero” divenne il punto di riferimento di una coalizione economico-mediatica che, diffidente verso il berlusconismo quale governo troppo screditato e senza validi agganci europei, aveva impostato anche lo scontro con la sinistra “neosocialdemocratica” di Bersani. Se a Vicenza nel 2006 andò in onda la guerra tra Berlusconi e la Confindustria (quella di Montezemolo) e i “giornaloni”, soprattutto il “Corriere della Sera” e “Il Sole 24 ore”, nel 2007 proprio i settori di grande impresa ostili al cavaliere organizzarono una controffensiva “culturale” (i libri della Rizzoli sulla casta venduti più dei vangeli) per azzoppare anche l’altro polo, quello di sinistra che con Prodi aveva vinto attraverso l’Unione ritenuta una alleanza troppo aperta alle voci radicali.

La guerra antipolitica al Pd di Bersani

Tra la “casta” da demolire e il populismo dell’impresa mediatica berlusconiana, il grande capitale cerca di definire uno spazio autonomo di interdizione e influenza. Le ostilità contro l’Unione di Prodi si placano e un momento di conciliazione viene raggiunto con il Pd veltroniano e la sua vocazione maggioritaria che candida Calearo e rompe con la sinistra. Sconfitto Veltroni e caduto il Pd nelle mani di Bersani, la volontà terzista riprende rapidamente quota e viene sorretta con investimenti nell’antipolitica (che accomunano il Corriere, Montezemolo, Della Valle). L’attivismo politico-culturale di Montezemolo, e soprattutto l’approdo al governo tecnico rilanciano le ambizioni dell’impresa di correggere il bipolarismo muscolare e poco innovativo.

Tradendo la fiducia di Napolitano che ne aveva consigliato il ruolo di servizio, il “podestà forestiero” raccoglie le sollecitazioni di un’area mediatico-imprenditoriale che punta al successo alle urne e, quando il cavallo del tecnico non tira nei consensi (come potrebbe con i pasticci sugli esodati, la rottura sociale di Fornero con le pensioni?), se ne serve (accanto alla narrazione della nuotata di Grillo) per determinare almeno un pareggio. L’esperienza di Monti è nel segno dell’antipolitica (contro la casta) e del populismo (disintermediazione).

La stessa cosa al momento non sembra profilarsi con il passaggio Draghi, ha ragione su questo Anna Loretoni (leggi qui il suo articolo). Non solo perché Monti era reclutato nell’universo d’impresa e Draghi in quello delle istituzioni pubbliche (Banca d’Italia e Bce) ma perché profondamente diversa sembra la cultura politica dell’attuale presidente del consiglio rispetto a quella antipartito e antisindacato del tecnico della Bocconi. La differenza si esplicita nelle scelte di governo, all’insegna del ritorno del pubblico di qualità, e nella condotta istituzionale rispettosa della democrazia rappresentativa.

Che ruolo politico potrà avere Draghi nei prossimi mesi non dipenderà da una sua forzatura personale nel segno di un passaggio plebiscitario da utilizzare contro le mediazioni politiche. Nemmeno realistica parrebbe al momento l’idea di un suo accasamento tra 6 mesi al Quirinale o dopo le elezioni del 2023, coltivando in tale eventualità l’ipotesi poco verosimile di un Mattarella che accetta di fare il presidente a tempo.

Draghi è un argine alla destra radicale

Per come è messa l’Italia nella sua economia e nei suoi rapporti sociali fondamentali, e per la gravità della minaccia della destra radicale, molto miope è una parte della sinistra che spreca le sue munizioni mirando contro Draghi novello Bonaparte e cigno nero. La durata del governo Draghi e il suo successo su tematiche sociali dirimenti è invece essenziale non solo per un rilancio dell’economia e della società ma perché soltanto la riuscita del progetto di governo può arginare il populismo vero, che poi è più giusto denominare destra radicale.

La tenuta del governo Draghi è essenziale, perché solo diluendo nel tempo gli effetti ricostruttivi delle politiche pubbliche è possibile far sbollire la rabbia del popolo di Salvini e Meloni (lo stesso di Madrid!) che è costituito dalla piccola impresa, dagli esercizi commerciali più colpiti dalle chiusure imposte dalla pandemia (che, novità potenzialmente distruttiva nei comportamenti di voto, ha messo in ginocchio l’universo del lavoro autonomo-intellettuale metropolitano, punto di forza della sinistra). Solo il tempo può sconfiggere la sedimentazione di rabbia che al momento dà forza alla destra radicale e ogni ritardo della cultura di sinistra nella comprensione del carattere costruttivo della guida di Draghi al governo di tregua prepara bruttissime sorprese alla democrazia.