Dopo il disincanto c’è anche il virus della perdita di fiducia
A pesare non è solo la pur tragica deriva a destra di questo Paese: è la credibilità della politica stessa. E’ il virus corrosivo della mancanza di speranza, della sfiducia generalizzata nel futuro, innestato da decenni di politiche sbagliate e poi coronato dagli abbagli dell’antipolitica.
La fiducia è un concetto denso e sfuggente, ma comunque è un termine che presuppone interattività e sfere condivise di significati. La dose di fiducia che circola in una collettività rappresenta il fattore più decisivo ai fini del suo benessere e delle sue possibilità di crescita; è la chiave di volta della coesione sociale, della moralità pubblica, delle capacità di sviluppo, dell’efficacia dell’amministrazione, della qualità stessa della vita delle persone. L’analisi dei fenomeni che determinano la creazione o la distruzione di fiducia è centrale non solo nel lavoro dei sociologi e dei politologi, ma anche in quello degli economisti (perché, se no, la fuga di capitali?).
Credibilità, reputazione, competenza – o meglio, rappresentazioni positive di esse – sono requisiti e sono risorse, implicano uno scambio attivo tra l’individuo e il suo mondo sociale, l’interpretazione di simboli e situazioni e l’interrelazione di prospettive. Riducono i costi, stimolano l’innovazione.
Polverizzate e messe in contrapposizione reciproca le condizioni reali, rese afasiche le strutture simboliche, annullato perfino il senso elementare della solidarietà, come si ricostruiscono rapporti sociali capaci di alludere a un differente modello di società?
Io parto dal mio habitat. Come si costruisce un legame sociale fra me, che mi batto per non perdere ciò che resta dei diritti conquistati, e la nuova generazione dei miei studenti, per la quale parole come eguaglianza, diritti, perfino lavoro, sono quasi prive di significato perché la loro vita scorre in una dimensione di precarietà che diventa la sola possibilità dell’esistere?
Abbiamo passato loro un’eredità pesante da portare, quella del disincanto.
Certamente la cesura tra politica ed etica, il senso d’impunità seminato in questi anni, l’elogio dei malandrini, l’irrisione di ogni giudizio morale, l’attacco al principio di legalità, il sentimento d’onnipotenza giustificato dall’esercizio del potere spiegano molte cose.
Non bisogna però dimenticare di aggiungere che i nostri costumi nazionali sono segnati da secoli di profonda indifferenza, da uno scetticismo che non costituisce una convinzione elaborata ma è un abito irriflesso, un atteggiamento atavico per cui si mette tutto nello stesso calderone (Francia o Spagna …) e si perdona tutto (specialmente a chi vince).
E’ come se la degenerazione cui la società occidentale sembra condannata avesse dato i suoi frutti peggiori in un paese già fragile per ragioni storiche e culturali.
Roberta De Monticelli la chiama “filosofia del disincanto”. Paolo Ceri definisce l’italico cinismo una “incapacità addestrata a stupirsi e a scandalizzarsi”. Maurizio Viroli scrive dell’abitudine degli italiani di scambiare la derisione dei princìpi per un realismo politico che si trasforma presto in opportunismo. Anche Claudio Magris vede gli italiani come “realisti miserabili”.
E’ la questione dell’”anomalia”: troppo antichi per stupirsi, troppo vecchi per indignarsi; al massimo, un po’ di moderato disgusto.
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