Dopo Biden Meloni a Kiev, porta in dono gli aerei a Zelensky?
Giorgia Meloni è a Kiev. È arrivata in treno da Varsavia, dove ha avuto un colloquio con il suo collega polacco Tadeusz Morawiecki e con il presidente Andrzej Duda e dove ha mancato di poco un appuntamento con Joe Biden, in arrivo a Varsavia da Kiev, dove, nella prima mondiale di un presidente statunitense nella capitale di un paese in una guerra non “americana”, ha offerto all’opinione pubblica mondiale la prova provata del “totale appoggio” di Washington a Zelensky e alla sua guerra. Oggi pomeriggio il capo della Casa Bianca parlerà davanti al Sejm, il parlamento polacco, e il suo intervento sarà a tutti gli effetti la risposta a quello che stamani, davanti alla Duma, il parlamento russo, avrà detto Vladimir Putin nell’attesissimo discorso sul bilancio della “operazione speciale” in Ucraina che ormai a Mosca anche per l’ufficialità ha cominciato ad essere chiamata col suo vero nome: guerra.

La spola Varsavia-Kiev e viceversa di Meloni e Biden al di là dell’ovvia differenza di peso dei protagonisti, nonché della probabile disillusione della nostra presidente del Consiglio per il fatto che la sua “storica” visita sia inevitabilmente messa in secondo piano dallo spettacolare confronto-scontro a distanza tra il russo e l’americano, ha avuto tuttavia la stessa impronta politica. La Polonia è la punta di lancia dello schieramento di quanti nella NATO premono per un sostegno militare senza limiti all’Ucraina con l’obiettivo di portare la guerra fino alla sconfitta definitiva della federazione russa e, nel seno della comunità occidentale, per il rifiuto di ogni possibile apertura verso una soluzione politico-diplomatica della crisi. Per il capo di Washington è il segnale di una chiara scelta di campo a favore della linea dei duri e puri dopo le esitazioni e le prudenze che avevano portato la sua amministrazione a fissare limiti ben precisi all’iniziativa militare di Kiev al di qua della linea di confine dello scontro totale con Mosca.
Spostamento della strategia NATO
È vero che quel confine è stato in qualche modo ribadito, ieri, nelle precisazioni, venute da ambienti della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato proprio mentre Biden si raccoglieva insieme con Zelensky davanti al muro degli eroi caduti in guerra accanto alla basilica di San Michele, sul fatto che nell’ennesimo pacchetto di forniture militari a Kiev annunciato direttamente e coram populo in diretta tv, stavolta per mezzo miliardo di dollari, non figurano (ancora?) aerei e missili a lungo raggio. È certo però che i “non possumus” in fatto di forniture di aerei fondati non solo sulla necessità di evitare occasioni di scontro diretto con le forze russe tali da far scattare la micidiale clausola dell’intervento collettivo contenuta nell’articolo 5 del Trattato Atlantico, ma anche per lasciare, magari senza dirlo apertamente, qualche margine a possibili futuri negoziati sulla riduzione reciproca delle armi, si sono molto indeboliti negli ultimi giorni.
Come è apparso abbastanza chiaro dai toni e dalla sostanza dei fatti che hanno caratterizzato la recente Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, un tempo terreno neutro di confronto est-ovest e ora, per la prima volta preclusa a russi e iraniani, trasformata in una specie di tribuna della propaganda dell’impegno dalla parte dell’Ucraina, il peso specifico dell’iniziativa strategica della NATO si sta spostando sensibilmente verso i paesi del nord e dell’Europa centro-orientale che, spaventati dall’aggressività russa, insistono fin dal momento dell’invasione su una risposta militare più attiva che passiva, carri armati pesanti – già ottenuti – e cacciabombardieri compresi.
A quest’ultimo proposito, girano da qualche ora voci secondo le quali Meloni si presenterebbe a Zelensky con un regalo preziosissimo: proprio gli aerei tanto agognati e chiesti ossessivamente in tutti i modi e in tutte le sedi.
Sarebbe proprio l’Italia, insomma, a rompere il tabù e a salire l’ultimo (per ora) gradino dell’escalation dei sistemi d’arma forniti dall’occidente. Va detto che, sempre secondo le voci, lo farebbe con una certa spilorceria: a Kiev verrebbero donati cinque cacciabombardieri AMX. Si tratta di aerei progettati da Italia e Brasile negli anni ’80 e in servizio in Italia dal 1984. Essendo molto vecchi, presentano il vantaggio di una strumentazione un po’ primitiva, che non richiederebbe ai piloti ucraini lunghi periodi di addestramento, ma avrebbero, però, un difetto per niente marginale: non sarebbero sicuri. Da quando volano (in soli tre paesi: Italia, Brasile e Colombia) hanno stabilito il record degli incidenti. Al punto che la Procura militare italiana, dopo il coraggioso gesto di un pilota che per evitare che il suo AMX precipitasse su un centro abitato morì facendolo cadere su un campo, aprì un’inchiesta contro i costruttori.
Gli Eurofighter
Un’altra ipotesi alla quale si starebbe lavorando sarebbe più dignitosa: l’Italia consentirebbe alla Gran Bretagna di fornire a Kiev un certo numero di quegli Eurofighter Typhoon che nel recente suo incontro con Zelenky il premier Rishi Sunak gli avrebbe promesso. Il problema è che si tratta di aerei coprodotti dalla Alenia Aermacchi (ora Leonardo) con aziende di Gran Bretagna, Spagna e Germania e quindi i permessi dovrebbero arrivare anche da Madrid e da Berlino, cosa che, almeno per ora, non appare facile. Meloni, comunque, potrebbe annunciare a Zelensky il beneplacito italiano alla fornitura: un beau geste elegante e, soprattutto, gratuito.
Al di là degli aerei, non c’è alcun dubbio sul fatto che la capa del governo di Roma si produrrà in tutte le assicurazioni possibili e immaginabili sul “totale impegno italiano a fianco dell’Ucraina” anche, e soprattutto, in fatto di forniture belliche. Se si volesse considerare la situazione privilegiando gli aspetti “geografici” della questione apparirebbe un po’ paradossale che nello schieramento dei duri più duri della NATO figuri pure la capa di un governo del fianco sud dell’alleanza, molto più vicino a Tripoli che a Mosca. Si sarebbe portati a pensare che la rigidità dell’atlantismo senza se e senza ma e il rifiuto di ogni ipotesi di soluzione negoziale della guerra che Giorgia Meloni ha professato da un certo momento in poi sia il prezzo da pagare ai debiti di fiducia causati da Berlusconi che straparla dell’amico Putin e di “quel signore” Zelensky e da Salvini il cui partito è tuttora legato a un trattato con Russia Unita di Putin.
È certamente così, ma c’è qualcosa di più. Il passaggio a Varsavia sulla via per Kiev è stato un segnale politico molto preciso su una profonda coincidenza di posizioni e di valori tra i due governi. Una coincidenza che non riguarda soltanto la NATO, ma anche – e forse anche di più – l’Unione europea. Meloni non ha mancato di farlo notare richiamando il fatto che la Polonia non è soltanto il “confine morale dell’occidente”, ma è anche il paese che ha la stessa concezione dell’Italia sul futuro di quella che – facendo torto alla memoria di Charles de Gaulle – le destre sovraniste a Roma e Varsavia chiamano l’”Europa delle Nazioni” e che è l’utopia da realizzare quando, nel disegno meloniano condiviso anche da ampi settori del PPE, nelle prossime elezioni europee del ’24, il partito dei Conservatori e Riformisti europei (che si chiama così ma pullula di gruppi e gruppuscoli ultranazionalisti, razzisti e parafascisti che con il conservatorismo non hanno alcunché da spartire) si dovrebbe alleare con i moderati per cacciare dal potere a Bruxelles socialisti e liberali.
Dove finirà l’escalation?
Insomma, la strada dell’escalation senza fine va di pari passo con la progressiva sovrapposizione delle strategie della NATO e dell’Unione europea, delle quali rendono testimonianza, in forme talvolta decisamente imbarazzante, tanto la presidente della Commissione Ursula von der Leyen che il presidente del Consiglio Charles Michel che l’Alto Rappresentante per la politica estera e della sicurezza Josep Borrell che, forse ancor più degli altri, la presidente del parlamento europeo Roberta Metsola, la più disponibile interlocutrice di Giorgia Meloni a Bruxelles. Nessuno dentro le massime istituzioni europee pare pronto a porsi la domanda delle domande: dove finirà l’escalation delle armi? Qual è l’obiettivo strategico dell’occidente? Che atteggiamento avere verso la Russia se e quando Putin, sconfitto, uscirà di scena? Dovrà puntare alla dissoluzione della Federazione russa, come cominciano a dire politici polacchi e baltici? Forse sarebbe ora che qualche risposta cominciasse ad arrivare.
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