Domenikon e le colpe (dimenticate) dell’occupazione italiana in Grecia
Il professor Efstatios Psomiadis non avrà giustizia. Dai mille rivoli in cui si è persa la storia di una guerra spietata a lui e agli altri greci legati alla memoria di Domeniko – un tempo Domenikon – non arriverà molto. Forse un risarcimento in denaro che l’avarizia della burocrazia italiana ridurrà quanto più è possibile, ma che comunque suonerà come un insulto. Perché – è quasi inutile dirlo – il risarcimento che il professor Psomiadis cerca da anni perché ne ha diritto per l’uccisione del padre di suo padre non sarebbe da cercare in un’aula di tribunale civile, ma sui libri di storia che si studiano nelle scuole, negli annali ufficiali della Repubblica nata dalla Resistenza, nella televisione di stato (che quella storia l’aveva ma come vedremo l’ha censurata), nella coscienza pubblica di tutto un paese che non solo è notoriamente restìo a indagare sul suo proprio passato ma che per decenni è stato prigioniero del pietoso mito autoassolutorio riassunto nell’espressione “italiani brava gente”. Mito che finché non è stato smentito dalla storiografia più seria ha dominato lo spirito pubblico e la cultura italiana anche a sinistra. Si pensi, per parlare solo di cinema, all’omonimo film girato da Giuseppe De Santis nel 1964 o all’Oscar a “Mediterraneo” di Gabriele Salvadores.
“Brava gente”?
Italiani brava gente? A Domenikon, borgo rurale della Tessaglia, esattamente 80 anni fa, il 16 febbraio del 1943, gli italiani uccisero 150 civili greci. Praticamente tutti i maschi fra 14 e 80 anni del paese e del circondario e fu una delle più sanguinose stragi compiute dall’esercito di Sua Maestà il Re e Imperatore Vittorio Emanuele e del Duce Benito Mussolini durante l’occupazione della Grecia.

Non fu il crimine più grave commesso dagli italiani: sei anni prima in Etiopia i soldati inviati dal “viceré” dell’Abissinia Rodolfo Graziani (quello cui in un paesino del Lazio è dedicato ancor oggi un mausoleo inaugurato dal cognato di Giorgia Meloni ora ministro e numero due del suo governo) avevano massacrato tutti i monaci e i seminaristi del santuario copto di Debra Libanos: duemila morti, forse di più. E anche in Grecia, e su su per i Balcani, il Montenegro, la Croazia, la Serbia fino alla Slovenia annessa al Regno d’Italia la storia della guerra del re e del duce fu un susseguirsi di violenze, di rappresaglie contro i civili, di internamenti nei campi di concentramento, di villaggi bruciati, di raccolti confiscati, di stupri, di morti ammazzati. E come accadde per tutti gli altri crimini commessi dai militari italiani, l’esercito regio e la milizia fascista, nessuno di coloro che se ne fece protagonista venne mai punito. Nessuno alla fine della guerra venne consegnato alla giustizia dei paesi occupati. Graziani fu processato in Italia, non per le stragi che aveva ordinato in Etiopia e prima ancora in Cirenaica dove si era meritato il titolo di “macellaio del Fezzan”, ma per collaborazionismo con i tedeschi. Venne condannato a 19 anni, ma dopo 4 mesi era già libero. Il generale Mario Roatta, quello che si lamentava perché “si ammazza troppo poco” e che da comandante militare della provincia di Lubiana diramò la famigerata circolare C sulle esecuzioni sommarie e gli incendi dei villaggi che persino al comando tedesco parve troppo feroce nei confronti della popolazione, fu fatto evadere dall’ospedale militare prima che cominciasse il processo che lo avrebbe condannato all’ergastolo e ricomparve nella Spagna di Franco dopo la provvidenziale assoluzione della Cassazione. Era il ’48, c’era la guerra fredda e non era più tempo di rivangare le colpe dei fascisti.
Estradizioni negate
All’uomo che aveva ordinato il massacro di Domenikon, il comandante militare delle truppe d’occupazione della regione di Larissa generale Carlo Geloso, non toccò neppure il fastidio di un processo-farsa. Il governo provvisorio di Atene alla fine della guerra ne aveva chiesto l’estradizione, insieme con il generale Cesare Benelli, comandante della 24° divisione di fanteria “Pinerolo” responsabile diretto della strage, ma intanto era scoppiata la guerra civile e gli inglesi imposero di non permettere ai “comunisti” di perseguire i due generali italiani. In patria, manco a dirlo, a processarli non ci pensavano minimamente.
Eppure le responsabilità di tutti e due erano evidenti ed era evidente anche il fatto che la strage di Domenikon e le gravissime violenze che la seguirono andavano molto al di là della “normale” legge di guerra sulle rappresaglie nei territori occupati. L’episodio, infatti, si collocò in una serie di efferatezze cui le truppe italiane si lasciarono andare fin dalle settimane immediatamente successive all’invasione voluta da Mussolini nell’ottobre del 1940 per mostrare che anche l’Italia, come i tedeschi alleati-rivali, aveva qualcosa da dire nella guerra che stava incendiando l’Europa. Il duce era sicuro che in poche settimane i greci si sarebbero arresi e avrebbero accettato, come gli albanesi due anni prima, il vassallaggio nei confronti di Roma. E invece l’avventura militare fu un disastro, le truppe, impreparate e mal equipaggiate, furono fermate da una resistenza furiosa al punto che nell’aprile del ’41 Mussolini fu costretto implorare Hitler perché le truppe della Wehrmacht dalla Jugoslavia occupata scendessero a risollevare le sorti della fallimentare campagna militare italiana.

La frustrazione della vittoria mancata e le grandi difficoltà create dalla resistenza armata e dall’ostilità della popolazione esasperavano i comandi militari e la risposta delle forze d’occupazione diventò sempre più violenta: rappresaglie, presa di ostaggi civili, requisizioni, incendi dei villaggi.
“Lezione salutare”
È in questo clima che si colloca la strage di Domenikon. La mattina del 16 febbraio del ’43 un commando di partigiani dell’ELAS, l’esercito di liberazione ellenico, su una strada che conduce al villaggio tende un’imboscata a una formazione della divisione “Pinerolo”. Nove soldati restano a terra morti. Il generale Geloso ordina a Benelli di disporre la più dura delle rappresaglie. Il paese viene circondato, gli abitanti costretti ad uscire dalle case che vengono incendiate insieme con la chiesa nella quale avevano trovato rifugio donne e bambini. Poi tutti e 97 gli uomini dai 14 agli 80 anni che si trovano in paese vengono caricati sui camion per essere portati, come ostaggi, in un campo di prigionia. Altri uomini verranno poi rastrellati nelle campagne e nei borghi vicini cosicché alla fine i prigionieri saranno circa 150.
A tarda sera il rastrellamento è finito e i camion partono, ma nel cuore della notte da Geloso in persona parte il contrordine: gli ostaggi vanno uccisi tutti e subito. Alla luce dei fari dei camion i prigionieri vengono fatti scendere e uccisi a colpi di mitragliatrice. Nella sua relazione sugli avvenimenti di quella notte Benelli si vanterà della “lezione salutare” che è stata impartita agli abitanti.
La notte di sangue di Domenikon non è che l’inizio: tutti gli abitanti della provincia di Larissa e poi quelli del resto della Tessaglia e della Grecia intera debbono essere puniti e imparare che cosa succede a chi si ribella agli italiani. Geloso è più pignolo dei suoi parigrado germanici nel praticare il principio della gemeinsame Verantwortung, la responsabilità collettiva per gli atti di ribellione compiuti da partigiani e sabotatori. Nei giorni immediatamente seguenti al 16 febbraio 400 villaggi vengono bruciati, gli uomini portati nei campi di prigionia, le donne stuprate e rinchiuse nei bordelli a disposizione dei soldati e degli ufficiali italiani e tedeschi. Nei resoconti dei comandi inviati a Roma e a Berlino il successo della repressione viene diviso equamente a metà: duecento centri abitati sono stati bruciati dai tedeschi, duecento dagli italiani.
La carestia
Ma la cosa peggiore, forse, sono le requisizioni. La Tessaglia è il granaio della Grecia e allora i suoi silos vengono svuotati dagli occupanti mentre il bestiame viene sequestrato: la carestia che ne consegue, e che sarà particolarmente acuta ad Atene, produce tra i 200 e i 300 mila morti per fame. Le foto dei bambini ripresi in quei mesi somigliano in modo impressionante a quelle dei deportati nei lager nazisti.
Per la strage di Domenikon e per tutte le violenze che la precedettero e che la seguirono, come s’è detto, nessuno ha pagato. Anzi, perfino la memoria del crimine ha rischiato di perdersi. Soltanto nel 2008 prima una ricostruzione dell’Espresso e poi un documentario inglese, “Mussolini’s Dirty War”, portarono all’opinione pubblica italiana quel pezzo di storia. Non senza che qualcuno cercasse di impedirlo: la RAI aveva comprato il documentario ma la dirigenza dell’epoca proibì di mandarlo in onda, probabilmente su pressione degli ambienti della Difesa. I telespettatori italiani ebbero la possibilità di vederlo solo grazie a una rete Mediaset.
Le polemiche dell’epoca convinsero comunque la Procura militare a riaprire il dossier. Ne scaturirono due procedimenti, il primo nel 2010 e il secondo nel 2018 che si conclusero ambedue con l’archiviazione: delle 11 persone che avrebbero potuto essere incriminate, nove erano morte e di due non si sapeva più nulla da anni.

Al professor Psomiadis e ai membri dell’associazione degli eredi delle vittime di Domenikon resta la possibilità che vada in porto la richiesta di risarcimento, fondata sulla circostanza che nel 2009 lo stato italiano, per bocca dell’ambasciatore dell’epoca ad Atene, ha riconosciuto le proprie responsabilità e presentato scuse ufficiali. Delle quali, in Italia, nessuno si è accorto.
Se la pratica del risarcimento andrà in porto, qualcuno, almeno, si deciderà a ricordare quel che è successo ottanta anni fa in quel villaggio della Tessaglia. Per chi volesse intanto occuparsene c’è la ricostruzione offerta da un libro del giornalista dell’Ansa Vincenzo Sinapi, “Domenikon 1943, quando ad ammazzare sono gli italiani”, con la prefazione di due storici che hanno lavorato particolarmente sulle vicende della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale contribuendo a sfatare il mito della “brava gente”, Filippo Focardi e il tedesco Lutz Klinkhammer.
“Domenikon 1943, quando ad ammazzare sono gli italiani” di Vincenzo Sinapi, Ugo Mursia editore
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