Essere o non essere
Il Pd serve ancora?

È uno spettacolo curioso, ma suo modo divertente quello al quale stiamo assistendo in questi giorni. Qualcosa che ricorda Pirandello, e che effettivamente fa riflettere sul degrado al quale sono arrivate la politica, e quindi la società italiana. Ma vediamoli da vicino i protagonisti di questa rappresentazione.

Il Movimento che è risultato primo alle elezioni sull’onda di una protesta sociale eccitata con parole d’ordine retoriche e demagogiche come il reddito di cittadinanza è diventato il maggiore sostenitore dell’autonomia della politica: qualunque alleanza va bene, con chiunque, purché si arrivi al potere. E il potere coincide con l’intronizzazione del capo politico del Movimento alla Presidenza del consiglio. Se questo non accade è violentata la volontà popolare, con la quale il capo è in contatto continuo, ed è perciò in grado di esprimerla con cognizione di causa. Chi l’ostacola si mette fuori del gioco democratico e sarà sottoposto al tribunale popolare, una vecchia fissazione dei capi del Movimento. I programmi non contano, ora è il momento della politica, e la politica è questo: manovra, capacità di stringere accordi con chiunque, purché si ottenga il risultato, cioè il potere.

Per chi conosce la storia nazionale, non è una sorpresa: è il vecchio trasformismo che è tornato di moda, e che viene sostenuto in modo aperto. Niente di nuovo sotto il sole. Si potrebbe osservare che è una metamorfosi un po’ stupefacente per un Movimento di quel genere; ma questo è vero solo a prima vista. La democrazia diretta ha sempre generato il potere incontrollato dei capi, l’autoritarismo. E quale sia la funzione della Rete si è visto con la formazione delle liste elettorali, e si vede oggi con le manovre del capo politico per arrivare alla presidenza del consiglio. Il capo va avanti, attorniato dai fedelissimi, tutti gli altri – milioni di persone – seguono e approvano, senza dire una parola. Sono vincolati al capo, secondo modalità che prescindono completamente dalle forme della democrazia rappresentativa, che è basata sul controllo e sulla trasparenza. Qui c’è un pastore che vincola e decide, e un gregge che va dietro al capo. Chi sgarra paga, il suo compito è obbedire ed eseguire: per questo è stato portato in Parlamento.
Naturalmente tutto questo è presentato come l’avvenire, il trionfo di nuove forme democratiche incentrate sulla Rete, e non più sui partiti, arnesi del passato, moribondi. L’Estonia è il regno della nuova democrazia, l’esempio da seguire. Eppure, il tanto amato Rousseau è chiaro su questo: “nel momento in cui vi è un padrone, non vi è più un corpo sovrano, e pertanto il corpo politico è distrutto”.

L’altro protagonista è la Lega, un partito solido, compatto, e vitale come hanno dimostrato le elezioni . Hanno un capo, ma anche un gruppo dirigente esperto, formato in molti decenni da Bossi. Non sono un coacervo di individui, ceti, gruppi. E non sono interclassisti. Esprimono gli interessi di un blocco sociale preciso, presente nella parte più ricca del paese. In linea di principio e di fatto non hanno niente in comune con il Movimento, ma anche qui il capo – tutt’altro che ingenuo – vuole il potere, che, in questo caso, coincide con l’andare al governo. La presidenza del consiglio non è una pregiudiziale, a patto che non vada al capo del Movimento con il quale vuole allearsi, anche in questo caso prescindendo dai programmi, che sono distantissimi su punti rilevanti. Ma anche qui, il programma non conta; conta arrivare al potere tenendo fermo un solo punto: il capo del Movimento non deve diventare presidente del Consiglio. Nella società dello spettacolo, questo non è accettabile, sarebbe un colpo mortale: significherebbe accettare la subalternità della Lega come orizzonte reale e soprattutto simbolico nei prossimi anni.

Per impedire questo, il capo della Lega ha bisogno di moltiplicare i suoi voti, come Gesù fece con i pani e con i pesci. Deve compiere un miracolo per arrivare dal 17% al 37%. Deve presentarsi come la destra, tutta la Destra, ingaggiando un vecchio grande attore della politica italiana che accetta di stare al gioco pur di sopravvivere, ma vorrebbe continuare a indossare la sua vecchia maschera, e non un nuovo vestito. E qui sorgono i problemi. Se apre la bocca viene zittito come un vecchio rincitrullito: ha fatto errori tattici, non capisce come stanno le cose. C’è una strategia: deve stare zitto, non reagire agli insulti. Ci penseranno gli alleati a proteggerlo, anche perché non possono farne a meno. È un vecchio arnese che non si può mollare, almeno ora. E se il capo del Movimento strilla perché capisce il trucco, fatti suoi: questa è una magia alla quale non si può rinunciare. Un gioco di prestigio, certo, ma un gioco serio.

Che fa allora l’astutissimo capo del Movimento? Si rivolge al Partito, che fino a quel momento aveva recitato la parte del servo di scena: fuori da tutto, dalle Presidenze delle Camere, dall’elezione dei questori, da tutto: in castigo, dietro la lavagna. Non ci vuole Machiavelli per capire quali siano gli obiettivi del capo del Movimento e cosa continui a cercare. Bisogna far fuori Berlusconi, non perché sia politicamente indigeribile: si può digerire tutto per arrivare alla Presidenza del consiglio. Ma Berlusconi è diventato un inciampo proprio su questa strada, la sua presenza genera la moltiplicazione della forza del capo della Lega e gli dà un forte potere di interdizione. Ergo: va eliminato, e questo consente oltretutto di rappresentare un altro lato della commedia: quello della purezza del Movimento.

Mai dunque Berlusconi! Ed in questo caso c’è da crederci: qui si passa dalla scena alla vita. Non si scherza col potere, concreto e simbolico. Si deve minacciare la Lega, e quindi viene riaperta la tomba in cui era stato composto, senza funerale, il Partito democratico. Troppo facile, verrebbe da dire. Lo capirebbe anche un bambino. Eppure il Pd è caduto nella trappola, si è diviso fra chi vuole stare all’opposizione usque ad mortem e chi vuole aprire, subito e comunque, al Movimento. Posizioni, per come sono presentate, entrambe stupide: si può fare opposizione su temi concreti, uscendo dalla tenda; si può aprire alle altre forze, senza essere servili e subalterni, diventando ruota di scorta di chi ti può buttare via in ogni momento, raggiunto l’obiettivo che si è posto coinvolgendoti.

Ma questo duplice errore nasce da un errore ancora più grande: dall’aver ridotto lo spazio della politica solo al governo, al Parlamento, alle istituzioni. E tutti e tre nascono dall’errore principale: pensare la politica solo in termini di potere. Basta vedere a come il Pd si è mosso dopo la mazzata elettorale: nessun analisi seria del voto, nessuna discussione sui limiti della propria azione negli ultimi anni, nessuna riflessione sul punto essenziale: il Pd non è più una funzione del Paese, non è più sentito come una realtà di cui l’Italia ha bisogno, per poter crescere e progredire. E di questo hanno preso atto i milioni che non l’hanno votato. Se, e quando questo accade, vuol dire che un partito è finito, non ha più nulla da dire.

Ma vorrei essere chiaro: questo non significa che non ci sia la possibilità di costruire, col tempo che ci vuole, una forza politica in grado di interpretare le domande di cambiamento che salgono in modo impetuoso dal Paese. Come diceva Bobbio, le domande restano, anche quando cadono, per incapacità o inettitudine, vecchie strutture. C’è questa possibilità perché i partiti che oggi trionfano non sono in grado di rispondere a quelle domande concrete, serie, ineludibili. Sono schierate dalla parte della conservazione, oppure non sono capaci di svolgere un’azione realmente riformatrice per deficienza di classe dirigente, per miseria culturale, e perché risolvono la politica nello spettacolo, nella rappresentazione.
Ma le domande restano. E, prima o dopo, la storia fa sentire le sue ragioni.