Mig bielorussi,
la Ue ha bisogno
di strategia politica

I fatti sono noti e hanno lasciato il segno di un’azione con pochi precedenti, abbastanza fuori dal comune almeno nell’area dell’Europa continentale, anche rispetto agli anni della guerra fredda. Il volo Ryanair, con 171 passeggeri a bordo, partito da Atene e diretto a Vilnius (Lituania) è stato costretto ad un atterraggio forzato (scortato minacciosamente da un MIG bielorusso) a Minsk il 23 maggio scorso.

Il pretesto di sventare un possibile attacco terroristico si è rivelato per quello che era già nelle intenzioni (sicuramente studiate in anticipo). L’obiettivo cioè di prelevare tra i passeggeri l’attivista bielorusso Roman Protasevich, che lavora per Nexta, un canale di Telegram, attraverso il quale, fuori dal paese, ha continuato in questi mesi la sua battaglia di opposizione, e la sua fidanzata (russa) Sofia Sapega.

Roman Protasevich con il volto tumefatto

Conferme degli esiti di questo gesto temerario, anche queste in modo insolito, sono arrivate attraverso un video, diffuso dalla sua detenzione in un carcere statale, nel quale lo stesso Ptotasevich recita una, evidentemente “involontaria”, confessione sulle sue attività di agitatore politico svolte nei mesi scorsi. Sono partite le condanne da tutto il mondo, compresa una imbarazzata reazione dei portavoce di Mosca (nonostante sembri che alcuni agenti russi fossero presenti tra i passeggeri dello stesso volo).

La risposta delle sanzioni

Molto forte e immediata quella del Consiglio europeo, dei Capi di stato e di governo che erano riuniti in presenza a Bruxelles, dopo molto tempo, per una delle loro ormai frequenti riunioni. Con un breve comunicato sono state annunciate nuove severe sanzioni contro la Bielorussia e il padre-padrone Lukashenko. Innanzitutto quelle sulla rinuncia a sorvolare lo spazio aereo bielorusso e, reciprocamente, di fatto il divieto di sorvolare i cieli degli Stati membri dell’UE per le compagnie aeree bielorusse.
Il gesto delle autorità di questo paese ha suscitato legittime preoccupazioni perché, mettendo in pericolo la sicurezza aerea, ha creato un gravissimo precedente, e si è potuto concludere nella palese violazione dei diritti di Protasevich di cui, giustamente, ora si chiede, l’ha fatto anche il Presidente del Parlamento europeo David Sassoli, l’immediato rilascio e la libertà di circolazione.

Alexander Lukashenko

Il Consiglio dei ministri Ue, coordinandosi con la Commissione europea, dovrà adesso estendere le sanzioni già emanate nei confronti di Lukashenko e di molti esponenti del regime, in seguito alle clamorose manipolazioni dei risultati elettorali delle elezioni presidenziali dell’agosto del 2020.

Val la pena di sottolineare che, a differenza dei moti di protesta che scoppiarono in Ucraina nel 2014, l’opposizione democratica bielorussa ha mantenuto un alto grado di coesione civica e, soprattutto, di non violenza. E con la partecipazione straordinaria delle donne come motore principale delle manifestazioni di piazza, a Minsk e nel resto del paese.

Giusto quindi pensare ad una forte iniziativa che inchiodi Lukashenko alle sue responsabilità verso il suo stesso paese. Da Bruxelles si potrà fare ricorso anche al nuovo regime globale dell’UE per le sanzioni in caso di violazione dei diritti umani, dovunque accadano nel mondo adottato a dicembre dello scorso anno. Si tratta di una sorta di “Magnitsky Act” europeo, simile cioè a quello adottato dagli Stati Uniti nel 2012 per sanzionare i responsabili della morte di Sergey Magnitsky, esperto fiscale in Russia, per aver scoperto una frode che coinvolgeva funzionari corrotti, e aggiornato nel 2016. Con questa norma, gli Usa estesero il loro regime di sanzioni di fronte a gravi violazioni dei diritti umani e atti di corruzione ovunque nel mondo.  Queste misure, come quelle ora adottate in Europa, prevedono divieti di viaggio e il congelamento dei fondi a persone fisiche e entità giuridiche responsabili di gravi violazioni o abusi dei diritti umani (tortura, schiavitù, esecuzioni extragiudiziali, arresti arbitrari o detenzioni).

La necessità di una strategia politica

Alla condanna di questo gesto clamoroso di pirateria aerea e alle prime misure adottate, non c’è dubbio che dovrebbe seguire una più incisiva strategia politica. Ormai il fronte orientale dell’Unione europea è molto più che un nervo scoperto. Conosciamo le difficoltà del rapporto con la Russia. Anche verso questo paese c’è un regime di sanzioni che vengono rinnovate, persino con un discutibile automatismo, ogni sei mesi come conseguenza della crisi scoppiata in Ucraina nel 2014 (secessione del Donbass e del Donetsk e questione dello status della Crimea annessa dalla Russia).

Gli anni trascorsi non sono serviti a creare un clima che favorisse la ripresa del dialogo tra le parti. Così sembra congelato il processo di pacificazione in Ucraina. Sette anni dopo l’inizio del conflitto armato nell’Ucraina orientale, sei anni dopo gli accordi di pace di Minsk, patrocinati da Germania e Francia, per porre fine ai combattimenti, si è arrivati a ben scarsi risultati (solo scambi di prigionieri).

Siamo in presenza, nonostante il più vasto disordine mondiale deflagrato dopo la fine della guerra fredda, di un progressivo irrigidimento e chiusura di prospettive di dialogo sul continente europeo. C’è da chiedersi quanto l’Unione europea si stia interrogando sino in fondo, al di là della denuncia di evidenti violazioni dei diritti umani o delle questioni certamente sensibili della cyber security, sulle prospettive del suo rapporto a lungo termine con la Russia e del confronto Est-Ovest.

Ci sono stati certamente atti discutibili da parte russa rispetto ai quali si è pensato di rispondere, soprattutto negli ultimi tre-quattro anni con una azione di denuncia che ha evocato il clima della guerra fredda, sterilizzando di fatto (a di là della scontata eccezione del rapporto speciale della Germania con la Russia per via del gasdotto Nord-Stream), il rapporto con un paese chiave e importante.

Si è anche pensato di poter assistere con un certo compiacimento al declassamento della Russia di Putin a “potenza regionale”, in un quadro di equilibri mondiali reso più complesso per l’irruzione sulla scena della Cina e di altri paesi. Dimenticando, tra l’altro che la Russia, per ragioni geopolitiche evidenti, continua ad esercitare una forte influenza su paesi come la Bielorussia o le altre repubbliche asiatiche dell’ex-URSS.
E contraddittorio è apparso il ruolo verso un paese importante come l’Ucraina. Esclusa l’idea di aprire un vero e proprio negoziato di adesione di questo paese all’Unione, nonostante il colpo di mano tentato dalla presidenza di turno della Lettonia nel primo semestre 2015 nel pieno della rivolta popolare di piazza Majdan, l’UE ha reagito alle conseguenze drammatiche di quella “rivoluzione” con un atteggiamento di chiusura verso la Russia.

Eppure, dopo la riunificazione tedesca del 1990, a un Gorbaciov, coraggioso ma sicuramente indebolito nel proprio paese per il rapido disfacimento del Patto di Varsavia, i leader occidentali, fecero la promessa che la NATO non si sarebbe estesa ai confini dell’ex-URSS. Addirittura il Vertice NATO di Pratica di Mare, concretizzò la proposta di un “Consiglio di cooperazione” con la Russia.

Le cose sono andate diversamente. L’Unione europea non è riuscita a negoziare sino in fondo una partnership speciale con i paesi del fianco est dell’Europa allargata (Bielorussia e Moldova oltre che Ucraina), e quelli del Caucaso occidentale (Armenia, Azerbaigian, Georgia) per creare un tramite virtuoso con la Russia. L’idea era quella di offrire un complesso piano di accordi economici e commerciali, in una cornice politica (il “ring degli amici”, come lo chiamò Romano Prodi, allora Presidente della Commissione europea) con l’obiettivo di stabilizzare questa vasta area e garantire all’UE un ponte ideale verso la Cina.

Tant’è. Intanto c’è stata la Presidenza di Trump e il sostanziale disimpegno occidentale in importanti aree di crisi. Adesso Biden ha riaperto molti canali di dialogo, soprattutto quelli multilaterali (clima, commercio, accordi con l’Iran) e sta cercando di consolidare questa nuova fase lanciando, a febbraio, dalla tribuna virtuale dell’annuale Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, l’idea dell’Alleanza delle democrazie.

Cosa dovrebbe fare l’Unione europea, se davvero volesse mantenere un’autonomia strategica anche rispetto a un generale rilancio del multilateralismo, è abbastanza chiaro. Riattivare, appunto i canali di partnership costruttive verso Est così come verso il Mediterraneo, senza trascurare la proiezione verso il continente africano.
Tuttavia, lungo queste linee, peraltro ampiamente discusse anche in occasioni recenti, sono noti i limiti istituzionali della politica estera e di sicurezza comune europea. La regola dell’unanimità, il prevalere della dimensione intergovernativa, la divisione tra i paesi più grandi (e anche piccoli) su molti di quegli scenari.
Qualcosa deve cambiare se non si vuole rincorrere le azioni, più o meno maldestre, dei dittatori o degli autocrati di turno che stanno ai nostri confini.