Difendere il 25 aprile,
un impegno per la pace e contro la guerra
Che senso ha il 25 Aprile? Una domanda netta, forte, che può sottintendere una provocazione e una risposta che liquida quella storia, settantasette anni dopo il giorno che segnò la liberazione dell’Italia, che segnò per noi la fine di una guerra, anche se non la fine dei lutti.
Sarebbe giusto rivolgere un pensiero ai morti di Hiroshima e Nagasaki, migliaia di morti, più di duecentomila morti, lontanissimi per chilometri dalle nostre case. Delle case di quelle vittime ci sono state tramandate immagini dopo le bombe: una distesa che pare infinita di calcinacci, di rottami, di muri miracolosamente scampati al disastro. Un paesaggio che in altra misura si è ritrovato a Kobane o in altri paesi della Siria o dell’ex Jugoslavia.
Si potrebbe pensare anche ai morti, in un certo senso postumi, vicini a noi. Una lapide in un parco di Milano ne ricorda quattro, quattro partigiani, che percorrevano una strada di periferia convinti ormai che si potesse riprendere la vita normale, che forse immaginavano un futuro lavoro e che ebbero la sfortuna di incrociare una colonna di nazisti in ritirata con alcuni fascisti a bordo. Da un camion una mitragliatrice sparò: i quattro caddero a terra, nessuno sopravvisse, era il 26 aprile 1945.
Ho sentito spesso ripetere: beati voi che non avete conosciuto la guerra. Come se il nostro fosse stato e fosse un tempo di pace. Il presente, l’altro ieri, ieri, oggi, ha conosciuto infinite guerre: la Corea, Cuba, il Vietnam, la Siria, la Libia, lo Yemen, l’Algeria (un’altra guerra di liberazione), l’Afghanistan, l’Ucraina. Le più svariate armi non hanno mai taciuto, dai fucili ai missili, dalle bombe a grappolo ai droni esplosivi, in una progressione tecnologica, che presuppone studi, ricerche, piani raffinati, calcoli esasperati, investimenti miliardari. Solo l’atomica è rimasta negli arsenali, dopo la sua sperimentazione di massa in Giappone.
“Il presente è uno di quei periodi in cui svanisce quanto normalmente sembra costituire una ragione di vita e, se non si vuole sprofondare nello smarrimento o nell’incoscienza, tutto va rimesso in questione”. Sono parole di Simone Weil, le prime righe di “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale”, scritte nel 1934. Valgono qui ed ora: rimettere “in questione” quanto ci sembra acquisito, certo, irrinunciabile, la nostra sicurezza, il nostro benessere, l’ordine mondiale che li garantisce.
Oltre l’indifferenza
La lotta di Liberazione e il 25 Aprile avevano rimesso “in questione tutto”, avevano cancellato due regimi violenti, liberticidi, sanguinari, due regimi che praticavano l’odio razziale, che teorizzavano e organizzavano con metodo ferreo l’annientamento dei “diversi”, fossero i malati di mente, gli handicappati, gli ebrei, i rom, gli omosessuali, i comunisti e tutti indistintamente gli oppositori, vite indegne di essere vissute.
Nel pensiero dei partigiani, di coloro che prima di tutto presero le armi contro l’indifferenza della “zona grigia”, che si schierarono senza temere il peggio contro lo sfruttamento di una società ferocemente classista, era l’edificazione di un mondo che traducesse nell’esperienza quotidiana il motto della rivoluzione francese, libertà, fraternità, eguaglianza. Cioè giustizia sociale, responsabilità condivisa, solidarietà, per la pace, contro la guerra. I partigiani ci sperarono: i loro progetti furono troncati, molti di quei progetti rimasero speranze.
Il nostro 25 Aprile, settantasette anni dopo, è ancora ansia di civiltà, di dignità, di un progresso, che non sia solo nuovo, continuo, consumo di beni materiali. Non sarà così per tutti. Troppe mutazioni (“antropologiche”, precisava Pasolini). Anzi lo è per pochi: la guerra però ci ha posto di fronte alla possibilità di rimettere tutto “in questione”. Non credo in un compito imposto dalla necessità: ci sono mille stratagemmi per aggirare, sviare, tradire. In fondo qualcuno che paga lo si troverà sempre. Peseranno la volontà, l’intelligenza, la sensibilità…
“Ho capito, Signore, la pace non me la può dare nessuno. E’ inutile sperare. I governi, gli stati, i continenti hanno bisogno di pace anche loro e non ne sono capaci. Camminano tutti su strade sbagliate. Tutti vogliono essere forti, si armano e studiano sistemi sempre più potenti e micidiali. Tutti vogliono essere forti. Dicono: solo un forte può imporre il rispetto e la pace. Come se la pace fosse un fatto di imposizione e non d’amore”. Lo scriveva David Maria Turoldo, il prete, poeta e antifascista, morto trent’anni fa. Mi permetterei di aggiungere: “libertà”. Ma in quella vecchia frase si legge la replica a tante lingue d’oggi, a tante polemiche, a tante apodittiche sentenze.
I morti per le strade
Il senso del 25 Aprile, che riviviamo di anno in anno, sta ancora in quelle parole, che riassumono l’impegno, assunto come un dovere morale, di quegli uomini che combatterono. A loro toccò anche sparare. Noi dovremmo sforzarci di credere che esistono altri modi per giungere a quel traguardo. In fondo ce lo hanno fatto sognare decine e decine di volte: quando i “grandi” firmarono a Yalta. Quando ci illudemmo che l’Organizzazione delle nazioni unite potesse costruire buoni rapporti tra tutti i paesi. Quando nacque l’Unione europea. Quando comparvero sulla scena politica altre organizzazioni universali, vertici, G8, G20, eccetera. Lì si sarebbero dovute risolvere le controversie. Ora dovremmo credere che sia la Nato la grande ragione pacificatrice.
Invece ci ritroviamo a contare i morti nelle strade.
Proprio quei morti ci costringono a difendere il nostro 25 Aprile, “per la pace contro la guerra”.
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