Dietro la sentenza
sul QE c’è una possibile
deriva sovranista
La sentenza della Corte costituzionale tedesca sul Quantitative Easing della BCE ha creato un certo scompiglio e qualche preoccupazione. Non ci sono stati, però, gli effetti negativi sui mercati che qualche cassandra aveva preconizzato e che il ministro italiano dell’Economia Roberto Gualtieri aveva subito provveduto ad esorcizzare assicurando che “per noi (italiani) non cambia nulla”.
In realtà è proprio così: nell’immediato, per quanto riguarda la complicata e delicatissima partita delle misure in discussione nella strategia europea sull’epidemia, cambia poco o nulla. La sentenza dei giudici di Karlsruhe riguarda la liceità (dal punto di vista tedesco) del QE che è stato praticato dalla BCE sotto la presidenza di Mario Draghi. L’istituto di Francoforte – questa è la pretesa che la Corte tedesca vuole far valere – deve dimostrare che i suoi interventi sono stati appropriati e non hanno stravolto la funzione e lo statuto della Banca. I dirigenti della BCE decideranno adesso se si sentono in dovere di fornire queste “giustificazioni”. Tutto lascia prevedere che lasceranno cadere la pretesa dei giudici tedeschi: sulla liceità del QE passato si è già espressa la Corte di Giustizia europea. La quale – e proprio questo, come vedremo, è il punto – applica il diritto europeo che è sovraordinato, in base ai Trattati, ai singoli diritti dei singoli stati. Insomma, come dice una nota canzone del più mediterraneo dei paesi del fronte mediterraneo, chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato…con quel che segue.
Acquisti indispensabili
Prima di proseguire, va considerata un’altra preoccupazione. L’obiezione della Corte di Karlsruhe riguarda il passato, va bene, ma non sarà che le “toghe rosse” (rosse nel senso che sono proprio rosse di colore, mai e poi mai nel senso metaforico che quel colore ebbe da noi) abbiano voluto sindacare non solo il passato ma anche il futuro? Non solo del QE targato Draghi, ma anche del QE che la presidente di adesso, Christine Lagarde, ha annunciato di voler praticare d’ora in avanti acquistando titoli con molta liberalità (anche i junk, i titoli spazzatura, hanno precisato a Francoforte) per la bella somma di 750 milioni di euro? Possibile, anzi probabile. Ma anche ammesso e non concesso che un giorno Madame Lagarde o chi sarà al suo posto quando si dovesse arrivare in giudizio, venisse chiamata ad esibire “giustificazioni” per la generosità dell’intervento, non avrebbe certo difficoltà dimostrare che un impegno così massiccio era più che giustificato, anzi proprio indispensabile, in una fase in cui la lotta alla più grave disgrazia che sia capitata all’Europa dopo le guerre mondiali si combatte a fior di trilioni, ovvero migliaia di miliardi di euro.
Sono insomma spuntate le armi dei giudici costituzionali tedeschi? Dal punto di vista pratico, sì. Ma dal punto di vista dei princìpi e delle conseguenze politiche di lungo respiro, la loro mossa presenta dei rischi sotto almeno due profili.
Il primo è quello accennato sopra: la pretesa di sottoporre decisioni politiche delle istituzioni europee alla giurisdizione nazionale. Non è la prima volta che dai giudici di Karlsruhe viene un sussulto così “sovranista”. Qualche anno fa la Corte sentenziò la non liceità delle decisioni prese dal governo federale in sede europea sul finanziamento del Fondo Salvastati (l’antenato del MES). Ma allora il motivo della reprimenda aveva un connotato, diciamo così, “democratico”: quello che i giudici non accettavano non era tanto che la decisione fosse stata presa a livello sovranazionale, quanto piuttosto che essa non fosse stata discussa e approvata dal parlamento. I giudici, insomma, intervennero con la loro presa di posizione sul reale problema del deficit di democrazia che affligge i meccanismi istituzionali dell’Unione europea. Se fosse quello il modo di porre il problema si può discutere e non è certo il caso di farlo qui ed ora, ma il principio era abbastanza chiaro.
Un “ritiro” impossibile
Stavolta no. Stavolta il problema posto non riguarda la democrazia ma, in modo abbastanza brutale, la sovranità. La Corte ritiene che il vulnus dell’uso secondo loro improprio del QE sia stato inferto non alla democrazia tedesca, ma alla sovranità tedesca.
Questa impostazione può produrre danni, sia sul futuro cammino dell’integrazione europea, sia sul corso della politica tedesca. Non quello, evocato da qualcuno con i toni apocalittici che spesso accompagnano i commenti sull’Europa e sulla Germania, di un possibile “ritiro” della Repubblica federale dalla BCE. Un’ipotesi del genere va bene per le chiacchiere al bar non per gli articoli sui giornali o i servizi dei telegiornali, che dovrebbero attenersi a minimi standard di serietà. Una simile ipotesi segnerebbe la fine immediata dell’Unione e non c’è nessuno a Berlino e dintorni, se non forse nell’estrema destra più estrema, che prenderebbe mai in esame uno scenario simile. Ma l’impostazione che pare aver ispirato i giudici di Karlsruhe potrebbe favorire una deriva politica comunque pericolosa: mettere armi cariche nelle mani di chi, anche in questa fase drammaticissima della vita del continente, sta facendo di tutto per tirare il freno del nazionalismo sovranista alla corsa verso l’adozione di politiche e di strumenti più solidali (e sicuramente più razionali).
E qui veniamo al secondo profilo di rischio. L’opinione pubblica e il complesso dei media in Italia è portato a considerare la Germania come un blocco di interessi e di opinioni omogeneo e omogeneamente ostile. Ma non è così. Lo è stato in passato, anche se forse meno di quanto siamo stati portati a pensare, ma certamente non lo è adesso, nel fuoco della tragedia che sta bruciando l’Europa. Nel paese c’è una forte discussione politica sul se e sul come superare la logica passata della disciplina di bilancio fine a se stessa. Ne è arrivata qualche eco anche in Italia con lo spazio che hanno avuto, e il piacevole stupore con cui sono state accolte, le prese di posizione di importanti commentatori della stampa tedesca (per esempio dello Spiegel e dell’edizione tedesca del Financial Times) e di economisti d’un certo peso. La stessa opposizione dell’establishment politico (di destra e di sinistra, eccetto i Verdi) all’ipotesi del fronte che ha proposto gli eurobond non è compatta e soprattutto non è arroccata sul rifiuto di un gigantesco impegno finanziario comune governato dalle istituzioni europee, Commissione (guidata da una tedesca) e BCE in testa. L’età dell’austerity sembra più antica del Paleozoico. Ma su questa prospettiva lo scontro è duro e non è detto che le resistenze, alla fine, non prevarranno. La scesa in campo dei giudici di Karlsruhe, forse, può essere letta anche in questo contesto.
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