Di Maio, la parabola di chi doveva cambiare tutto ma certifica solo il fallimento del M5S
Date le circostanze, verrebbe facile adottare per Luigi Di Maio la definizione espressa dal titolo di un famoso romanzo di due secoli fa, “Un eroe del nostro tempo”, autore Michail Lermontov, un russo ahimè, protagonista, Grigorij Pecorin, lui pure russo, naturalmente e, per giunta, ufficiale dell’esercito zarista, un bravo ragazzo corrotto dalle esperienze della vita, un bravo ragazzo che invecchiando si era fatto ambizioso, ipocrita, vendicativo. Non sarà mai così, come l’ufficiale Pecorin, il nostro Di Maio, non sarà cioè preda dell’ambizione, dell’ipocrisia, dello spirito di vendetta. Ma il giovane trasparente, idealista, incorruttibile di una volta, il generoso savonarola capitato per un caso della sorte nella politica italiana, fustigatore di costumi altrui, una metamorfosi la sta vivendo e chissà dove lo porterà. Bisogna riconoscere che non ha modificato la postura, tipo manico di scopa, le spalle vagamente reclinate e irrigidite, gli abitini su misura, il sorrisino di superiorità. Ma la tempra di apriscatole del parlamento italiano s’è dissolta, facendo largo a ben più accomodanti atteggiamenti. Il parlamento ora gli sta bene, meglio poi se si può mirare l’assemblea da uno scranno di governo, quel governo che gli ha acconsentito di girare mezzo mondo, di esibirsi dalle tribune più importanti, di imparare un po’ di inglese, di nutrire altre speranze. Martedì, durante la seduta parlamentare, sistemato alla sinistra di Draghi, rivolgeva lo sguardo al presidente, sorridendo e annuendo, e c’è da scommettere che, in cuor suo, non si sarà negato il proposito di salire fin lassù, fino alla sontuosa poltrona alla sua destra.
Lo studio alla scuola democristiana
Ci sta lavorando. Bisogna riconoscere che Di Maio sa fare i suoi conti, ha studiato alla scuola democristiana, probabilmente non confonde più il Cile con il Venezuela, non s’affaccerà più al balcone, gridando: “Abbiamo sconfitto la povertà”. Ha imparato che la cautela è una virtù e con la dovuta cautela, dopo aver ascoltato a destra e a manca, dopo aver soppesato gli spifferi di nuove alleanze, candidature, garanzie, assaporato l’aria del “centro”, sarà arrivato al gran passo, preannunciato alcuni giorni fa sulla base di una ragione e annunciato l’altra sera, quando quella ragione non c’era più. Perché alla fine, come si sa, hanno votato tutti allo stesso modo, con maggior o minore entusiasmo, ma tutti allo stesso modo. Allora viene da chiedersi se pace e guerra, carri armati e bombe, non fossero che un pretesto. Come ha detto e scritto il perfido Travaglio, Di Maio avrebbe preferito che Conte seguisse la strada del dissenso netto, gli avrebbe fatto comodo per spiegare la rottura, gli avrebbe fatto comodo per dissociarsi dal suo capo in nome della fedeltà al governo e al dogma atlantico. L’avvocato del popolo non c’è cascato: la maggioranza è rimasta lì, integra, al suo posto, in attesa delle prossime comunicazioni dal fronte ucraino.
La sensazione è che Di Maio si sia portato avanti con il lavoro, atterrito dall’idea che la regola del “doppio mandato e non oltre” (in verità, un’altra insulsa pensata demagogica) potesse valere anche per lui (così disse il padre Grillo). Lo hanno seguito in tanti. La Lega sarà il primo partito, i cinquestelle si ritrovano retrocessi, un bel pattuglione ha seguito il ministro, abbandonando un barcone che fa acqua da tutte le parti. Di Maio, forte di quei sessanta fedeli, contratterà, dibatterà, strapperà vantaggi per sé e assicurazioni per gli altri. Ha già messo la firma alla terza candidatura e, con ogni probabilità, alla terza legislatura, in barba al solenne giuramento pronunciato al via della corsa guidata da Beppe Grillo. Lui ce la farà. Ma viene da chiedersi con chi, cioè con quali elettori. Quei sessanta transfughi più Di Maio che cosa rappresentano, quale elettorato, quale politica. “Insieme per il futuro” è tutto lì, nella formuletta di un cattivo copy, che rivela per bene le reali intenzioni. Sotto il segno dell’atlantismo? Poca cosa, che convincere un sostenitore che aveva imbracciato i fucili del movimento non certo per sparare in Ucraina, ma invece per sparare, metaforicamente si intende, sul parlamento e dissodare la terra, per prepararla al seme di una nuova democrazia (sotto forma di piattaforma rousseau).
La pratica secolare del trasformismo
Nel nostro paese il trasformismo è pratica secolare. Da Depretis, Crispi, Giolitti siamo arrivati a Di Maio. La linea in discesa ha pure segnato qualche sussulto di dignità, di moralità, di responsabilità, ma è una linea che continua costante, sprofondando fino a Di Maio. Sprofondando fino a Di Maio, perché non ce la sentiamo di legare il nome del ministro degli esteri a quello di Giolitti o a quello di Crispi. Altre storie, altri momenti. Verrebbe un’altra citazione, questa volta di Carlo Marx (un filorusso?) che vedeva nel ripetersi della storia e in Napoleone III la parodia del vero Napoleone. Trasformismo, quanti ne abbiamo conosciuti in parlamento di mediocri trasformisti. Di Maio non aggiunge molto, se non quella sua ansia flagellatrice della politica a inizio della propria carriera.
Qualsiasi cosa succeda, si può dedurre che Di Maio ce l’abbia fatta, di dritto o di rovescio: per questo merita l’appellativo di “eroe del nostro tempo”, un tempo di furbizie, di trucchi, di opportunismi e di molto peggio, interprete di quella commedia umana, che stiamo tutti vivendo o subendo. Ce l’ha fatta: ha conquistato fama, onori, auto blu e pure il vitalizio. Se poi ci si chiede invece che cosa abbia fatto Di Maio per noi è difficile rispondere. Oppure si può semplicemente rispondere: ha fatto il ministro degli esteri. Cioè ha occupato un ufficio, con quali strategie, per quali obiettivi, con quali risultati è difficile capire. Capiterà che in decenni futuri qualcuno al suo paese penserà di dedicargli una scuola. Un regista potrebbe meditare un film (la sceneggiatura è pronta, testo dello stesso ministro, libro da non perdere: “Un amore chiamato politica”).
Quel terzo mandato assicurato
Non sarà mai solo Di Maio. Non assurgerà mai al ruolo di pecora nera. Il conformismo delle maggioranze è il suo credo. Lo applaudono e si sente bravo.
Così, tra i tanti disastri che dobbiamo affrontare, dalla guerra alla siccità, dall’inflazione al risorgere del covid ai morti sul lavoro, subito dimenticati, si ingigantisce sui nostri teleschermi e sui nostri giornali la domanda canonica: quanto influirà sul governo la fuga di Di Maio dai cinquestelle? Probabilmente non influirà per nulla, perché l’operazione è solo elettorale, si vedrà fra qualche mese. Certo il divorzio ha rivelato, come se ce ne fosse bisogno, la fragilità di un movimento politico, reduce da un trionfo non troppo lontano e ormai appiedato, prima volgarmente ostile ad ogni pratica di confronto (indimenticabili i loro insulti, indimenticabile la sceneggiata contro Bersani), poi pronti alle peggiori alleanze (chi ha sottoscritto i patti con Salvini?). Però la demagogia non basta. Non siamo in grado di ripercorrere la storia, ma è sempre andata così: i fuochi troppo violenti all’inizio è bene se si spengono alla svelta (per evitare catastrofi). Anche questo ci appartiene, i cinquestelle non sono alieni caduti da Marte. Rappresentano il manifesto di un paese, che gode (per quanto ancora?) di qualche benessere, ma che vorrebbe molto di più e invidia quelli che di più hanno. Invidierà pure Di Maio. Anche questo è cosa nostra, solo un passaggio nel declino della politica e della società civile, della cultura e di ogni virtù civica, in cui prosperano il familismo amorale (come ci aveva ben descritto il povero Paul Ginsborg) e imperversa il conflitto di interessi. Di Maio è solo uno dei tanti. Dovrebbe però pagare qualcosa per il tempo che ci ha fatto perdere.
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