Di che cosa parliamo
quando parliamo
di diseguaglianze
Nel dibattito pubblico si fa riferimento sovente alla Costituzione repubblicana discorrendo di riforme mancate. Forse sarebbe opportuno riflettere sui valori che il testo costituzionale veicola e sulla loro attualità. È il caso dell’uguaglianza, nei due stadi in cui può essere distinta, di uguaglianza formale (di fronte alla legge e con il divieto di discriminazioni) e sostanziale (rimozione degli ostacoli che concretamente limitano l’eguaglianza sociale ed economica e, dunque, “il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”). Uguaglianza e partecipazione figurano esplicitamente nel comma 2, art. 3 della Costituzione. Le Costituenti e i Costituenti avevano compreso il forte nesso fra uguaglianza e partecipazione,evidenziandolo già nei principi fondamentali. Avevano ragione:la scienza politica più avveduta ci ha insegnato che tra le condizioni favorevoli al consolidamento della democrazia si trova l’assenza di disuguaglianze economiche estreme e tale questione rimane rilevante anche per le democrazie consolidate. La concentrazione di ricchezza, status sociale, risorse informative e cognitive comporta anche la concentrazione di risorse politiche e tale condizione “cumulativa” si scontra con la promessa ideale della democrazia (ossia garantire condizioni di libertà ed uguaglianza per i cittadini) e può distruggere “capitale sociale”, ossia l’insieme dei legami di fiducia che innervano la società.
Sono questioni molto attuali. In una intervista a TPINews, Fabrizio Barca, fra i fondatori del “Forum Disuguaglianze”, ha ricordato alcuni dati relativi all’incremento della disuguaglianza economica nel nostro Paese: durante gli anni della crisi, tra il 2008 e il 2014, la quota di ricchezza posseduta dai 5.000 adulti più ricchi d’Italia è quintuplicata, passando dal 2% al 10% del totale della ricchezza privata. Mentre il 50% meno ricco degli italiani possiede il 5% della ricchezza. Oltre alle disuguaglianze di tipo economico, ricorda Barca, aumentano le disuguaglianze sociali, che fanno riferimento alla possibilità di accesso a servizi fondamentali. Un numero crescente di cittadini deve fare i conti con un deterioramento di servizi fondamentali, quali sanità e scuola. Infine, vi sono le disuguaglianze politiche, o di riconoscimento, che sono connesse con le condizioni di un numero elevato di cittadini che si sentono ai margini della sfera pubblica, inascoltati nelle proprie richieste e poco rappresentati nella tutela dei propri interessi e valori.
La crisi economica del 2008 non è la causa delle disuguaglianze, bensì l’amplificatore, e, di conseguenza, lo scatenante delle proteste di coloro che, nei diversi paesi, patiscono gli effetti della crisi. In particolare, in Italia, i 7 anni di crisi hanno raddoppiato la disoccupazione ed eroso il PIL pro-capite di 7 punti percentuali.
La crisi crea uno “squilibrio traumatico” che rappresenta lo spartiacque della nostra epoca, indicando l’impossibilità di ritornare al mondo di prima.Un libro pubblicato in queste settimane, “Come la crisi economica cambia la democrazia”, di Leonardo Morlino e Francesco Raniolo (Il Mulino), evidenzia come eventi traumatici quali la crisi economica possono avere ricadute significative sulle condizioni di vita e quindi sulle preferenze di voto degli elettori. Soprattutto i lavoratori meno qualificati, precari e irregolari, più colpiti dalla crisi, mostrano interesse verso formazioni partitiche di protesta. A questo si aggiunge la crisi di fiducia nei confronti dei partiti tradizionali, considerati inefficaci nella gestione della crisi, soprattutto considerati responsabili dell’adozione di politiche di austerità. Insoddisfazione, incertezza economica e insicurezza sono gli elementi che hanno minato la fiducia nei partiti tradizionali e dischiuso nuove opportunità per le formazioni in grado di interpretare le proteste di ampie porzioni della società.
Per anni molte narrazioni hanno frettolosamente negato che l’esistenza delle classi sociali. Non solo le classi sociali esistono ancora, ma sono strutturate in modo molto diverso rispetto ai decenni centrali del Novecento, quelli che Jean Fourastié chiamò “i trent’anni gloriosi” (1943-1973). In quegli anni è stato possibile ricostruire le democrazie occidentali dopo le tragedie delle dittature e delle guerre mondiali, anche attraverso un compromesso “socialdemocratico” fra capitale e lavoro, che ha garantito la crescita e ne ha distribuito i vantaggi a tutte le componenti della società. Citando ancora le riflessioni di Barca, riprese anche in un articolo pubblicato su Repubblica di martedì 27 novembre,oggi una sfida essenziale riguarda la capacità di rappresentare il lavoro in tutte le sue molteplici forme, pure il lavoro frazionato, precario, dei corrieri (‘riders’). Sarebbe opportuno che anche di questo parlasse il dibattito sulla sinistra da ricostruire. Senza la pretesa di infilare tutto subito nell’ennesimo contenitore, ma con la ricerca di una condivisione di proposte chiare su questioni essenziali quali inclusione, uguaglianza, lavoro ed ambiente.
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