Ddl Zan, evitare finti compromessi e restituire centralità al Parlamento

La proposta di legge Zan in discussione al Senato, che è stata approvata il 4 novembre alla Camera con il sostegno di Pd, LeU e Italia Viva, è composta da dieci articoli. Quelli contestati sono tre: il primo, il quarto e il settimo. Nel primo articolo si definiscono il sesso biologico, il genere, l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Nel quarto si esprime la volontà di difendere la libertà di espressione di ognuno, a meno che questa non si trasformi in atto violento o discriminatorio. Nel settimo si chiede alle scuole di promuovere iniziative di sensibilizzazione al rispetto del prossimo durante la giornata contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, che dovrebbe essere calendarizzata il 17 maggio.

Identità di genere, attacco all’articolo 1

Se, sugli articoli quattro e sette, il dibattito sembra essere più strumentale che di merito, sul primo si concentrano le polemiche principali. In particolare, il tema diventa complicato quando, secondo la disposizione, si definisce l’identità di genere come “l’identificazione percepita e manifestata di sé”, anche se non corrispondente al sesso biologico. Una persona può liberamente sentirsi ciò che crede, pur avendo il cromosoma “xy” o “xx”.

L’argomento non è affatto nuovo, anzi, è ben piantato nella società ed è stato più volte toccato dalla Corte costituzionale, come ricorda un articolo di Vitalba Azzolini, apparso sul “Domani” dell’11 luglio. Per quello strano processo per il quale, a volte, i diritti sono rilevati e tutelati prima dalle corti e poi dai parlamenti (in una democrazia matura dovrebbe essere il contrario), la Consulta definisce il diritto all’identità di genere come “costitutivo dell’identità personale” (sentenza 180 del 2017). Di fatto lo riconosce come proiezione dell’articolo 2 della Costituzione e lo scolpisce nell’ordinamento.

Eppure questo non basta a garantire un’approvazione rapida e indolore del provvedimento, perché dietro il muro contro muro degli ultimi mesi si nasconde una differenziazione più profonda. Ne scrive Sebastiano Maffettone sul Corriere del 3 luglio, nelle cui pagine ricorda il contrasto tra la concezione idealistica e quella naturalistica della vita, riconnettendo a questa distinzione filosofica il nocciolo dello scontro. Se “transgender” è colui che si sente qualcosa di diverso dal proprio corpo e “transexual”, invece, è colui che ha già apportato delle modifiche al corpo stesso verso un cambio di sesso, allora l’identità di genere si delimita in una questione interna, culturale, personale. Un dato ideale. Nel senso che la costruzione della propria vita, quindi degli schemi su cui si imposta, è ideale perché basata su due pilastri essenziali: la scienza e la cultura. La cultura, che forgia le idee, diventa collante delle relazioni sociali.
Nella visione naturalistica della vita, al contrario, le caratteristiche individuali hanno una derivazione divina, con la conseguenza che esistono determinati istituti che non possono essere modificati: il dualismo uomo/donna, il matrimonio come vincolo sacro, la famiglia e così via. Due visioni radicalmente opposte di intendere la vita.

Le riserve delle femministe

Eppure anche altri, per nulla naturalisti, mostrano riserve sulla legge. Diversi gruppi femministi, ad esempio, dopo aver passato anni a rivendicare la propria identità, sollevano dubbi sulla definizione dell’articolo uno. Non credono sia il caso di superare la visione binaria, tradizionale dell’identità di genere.

A queste obiezioni, il blocco di centro-destra risponde proponendo delle mediazioni. Cercherebbe dei punti di contatto inquadrando il dibattito dal punto di vista penale, auspicando un aumento delle pene per chi discrimina. Le pene, però, sono solo un aspetto della norma, peraltro non innovativo. Il codice penale, infatti, all’articolo 414 punisce chi istiga alla delinquenza fino a cinque anni di carcere, cui si aggiungono i “futili motivi” che aumentano di un terzo la detenzione stessa (art. 61). L’obiettivo della legge, quindi, non è solo legale nel senso punitivo del termine, ma giuridico-culturale. Si tratta di dare una protezione sociale a una minoranza e trovare una quadra intorno a un tema che, già nel lontano 1996, il deputato Nichi Vendola solleva senza successo. Sono passati venticinque anni e se ne discute ancora animatamente.

Chi reclama a parole una convergenza, eliminando i tre articoli “compromettenti”, in realtà non ha mai dimostrato seriamente di volere la norma. La Lega, che con Fratelli d’Italia condivide la linea politica del governo ungherese (dichiaratamente contrario all’omosessualità), martedì 13 luglio promuove la discussione al Senato non sul merito del provvedimento, ma sulle pregiudiziali di costituzionalità (primo firmatario, il senatore Pillon). Vale a dire costringere l’Aula a votare su un documento che espone i dubbi di costituzionalità della proposta di legge, con lo scopo di ritardare la votazione vera e propria sul testo. Un espediente, come tanti altri, per perdere tempo. Basti pensare che chi chiede oggi una nuova mediazione, che c’è già stata per mesi alla Camera dei Deputati, proprio a Montecitorio ha presentato più di 800 emendamenti per cercare di ritardare a dismisura il voto finale. Altra dimostrazione di ostruzionismo.

No ai compromessi al ribasso

Difficile immaginare forme di compromesso in questo clima. Se non altro, il voto sulle pregiudiziali mostra ufficialmente il divario numerico tra i favorevoli e i contrari alla norma: dodici voti. Non sono molti e il successivo risultato sulla richiesta di sospensione (respinta per un solo voto) non tranquillizza, però sono un dato politico da cui partire.

Forzare la mano sul provvedimento, infatti, nonostante il pericolo dello scrutinio segreto, non significa solo mettere una bandierina di centro-sinistra all’interno di una maggioranza di governo ampia e sempre variabile. Significa anche restituire al Parlamento, almeno parzialmente, quella funzione legislativa spesso offuscata dall’azione di Governo. Quando è stata approvata l’ultima importante legge di iniziativa parlamentare, che non fosse quindi un atto voluto dall’esecutivo? Le Camere, attraverso il confronto, hanno il compito di dare un indirizzo non solo ponendosi in un rapporto dialettico con l’esecutivo, ma anche legiferando di propria iniziativa. Il ddl Zan, dunque, non è solo una battaglia per una norma di civiltà, non è solo un testo che svolge una funzione pedagogica verso chi ancora non riconosce altro all’infuori di sé, ma conserva anche degli importanti profili di funzionalità costituzionale. Contribuisce a restituire centralità al Parlamento. Affossarlo, con la scusa di finti compromessi, sarebbe un passo indietro politico e istituzionale.