Dal marxismo critico all’esistenzialismo
Il lungo viaggio ideale di Agnes, la ribelle

Il percorso di studi universitari di Ágnes Heller era iniziato nel dopoguerra come allieva del filosofo marxista ungherese più noto e più importante, Georg Lukács, del quale divenne allieva prediletta. Lei stessa racconta di essere divenuta marxista quando, nel 1953, ebbe la possibilità di leggere direttamente le opere di Marx nella biblioteca del Parlamento, grazie a una lettera di raccomandazione dello stesso Lukács. «Fu solo allora, dichiara, che divenni marxista, quando non ero più comunista». Il marxismo divenne il sottofondo delle sue riflessioni, che però presero direzioni assolutamente eterodosse.

È stata infatti interprete e sostenitrice – sia pure critica – del marxismo nel suo periodo ungherese fino agli anni ’70. Possiamo dire che è stata una marxista ribelle. Insieme ad altri discepoli più vicini al maestro – György Markus, Ferenc Fehér, Mihály Vajda – negli anni ’60 fu tra i fondatori della Scuola di Budapest, che si proponeva dichiaratamente un rinnovamento del marxismo rispetto alle interpretazioni sovietiche ufficiali che costituivano l’ortodossia.


György Lukács

La teoria dei bisogni

Col suo marxismo critico divenne ben presto una figura rilevante nella filosofia internazionale, capace di esercitare un’influenza notevole sulla generazione di giovani intellettuali degli anni ‘70 e ‘80, soprattutto con la sua Teoria dei bisogni in Marx e Teoria dei sentimenti, grazie alle quali era entrata ufficialmente nella cerchia di intellettuali new left, che non faceva riferimento alle categorie classiche del marxismo. E del resto, anche la scelta dei temi era originale ed eccentrica rispetto al marxismo corrente: vita quotidiana, sentimenti, bisogni radicali rinviavano a una nuova, diversa cornice interpretativa. Per Heller non aveva senso, ad esempio, parlare di materialismo dialettico (notoriamente categoria fondamentale dell’ortodossia sovietica).

Era convinta che il soggetto della storia e delle storie siano gli individui, individui in relazione: relazione resterà sempre categoria importante della sua antropologia come della sua etica. Gli individui sono soggetti fra i quali si intrecciano relazioni che spesso si presentano come un groviglio di sentimenti contrastanti, negativi e positivi. Heller non rinuncerà mai – neanche dopo l’abbandono del marxismo e del comunismo – alla sua forma di utopia che vede connessi amore, amicizia, bellezza, bontà, come dimostrano le sue opere sull’etica degli anni ’80 e ’90.

La valorizzazione dell’individuo è un tratto presente già nei primi passi da filosofa in fieri, gli anni che lei definisce «di apprendistato». Scrisse la tesi di dottorato sullo scrittore russo Nikolai Černyševskij il cui romanzo Che fare? aveva ispirato uno scritto di Lenin dal titolo omonimo (Lukács le aveva proposto come argomento l’etica negli scritti di Lenin!). La Tesi di dottorato divenne poi un libro che aveva come sottotitolo Il problema dell’egoismo razionale (1954), che conteneva un punto di vista quasi utilitarista dell’etica, sostenendo la legittimità dell’egoismo. Come dire che l’individuo non poteva essere espulso, obliterato, dal soggetto collettivo (il proletariato, la classe). In quegli anni pensava ancora che il comunismo fosse una cosa buona, ma semplicemente distorta e il libro voleva essere un tentativo di dare una rappresentazione del nuovo mood politico che si respirava con le idee più aperte di Imre Nagy, il quale non escludeva l’individuo dall’interesse generale per la costruzione di una società comunista.

La centralità dell’individuo

La centralità dell’individuo in relazione è l’elemento che può essere assunto come filo conduttore di tutta la sua riflessione, non soltanto etica, ma anche sociologica e antropologica. Le sue posizioni generali nel corso dei lunghi anni cambieranno, ma sempre nel nome della valorizzazione dell’individuo come soggetto. Riguardano infatti l’individuo in relazione le sue riflessioni sulla vita quotidiana, sui sentimenti, sui bisogni, sempre nell’ambito di quello che più tardi chiamerà il «rinascimento del marxismo».

Fra gli anni ’60 e ’70 furono scritte e pubblicate le opere che le hanno dato la notorietà proprio per la sua sempre più pronunciata ricerca personale all’interno di un marxismo che non è di tipo economicistico, ma antropologico, umanistico. L’uomo del Rinascimento (1967) – frutto anche di un viaggio in Italia e soprattutto a Firenze – contiene già tutti gli indizi di una nuova concezione umanistica che ispirerà anche la riflessione successiva. Il concetto fondamentale dell’opera è l’«uomo dinamico» in una società divenuta dinamica, che consente di lasciare un’impronta individuale sul mondo: «La dialettica fra l’uomo e il destino divenne la categoria centrale della concezione dinamica dell’uomo». Dopo vennero Sociologia della vita quotidiana, La teoria dei bisogni in Marx, Filosofia radicale, Teoria dei sentimenti, Teoria della storia e molti altri. È il periodo che definisce «gli anni del dialogo». Ogni tanto le veniva consentito di viaggiare e soprattutto di partecipare agli incontri della scuola di Curzola, che riuniva filosofi, sociologi, economisti fra i più importanti, accomunati dall’idea di combattere il marxismo di stampo sovietico. Entrò così sulla scena internazionale. In quegli incontri lei dava e riceveva stimoli di nuove riflessioni. Diventarono la sua finestra sul mondo. Entrò ben presto nel comitato editoriale della rivista Praxis, punto di riferimento del gruppo.

Karl Marx

Un libro tipico del suo marxismo critico, sempre della fine degli anni ’60, è Per una teoria marxista del valore, nel quale è evidente la sua ricerca di una nuova strada all’interno del marxismo. Parlando dell’origine dei valori e della vita quotidiana, assumeva la categoria di ricchezza come valore fondamentale da cui discendono i giudizi di valore. La «ricchezza» di cui Heller parla è quella che si ricava soprattutto dagli scritti giovanili di Marx, la possibilità di ciascuno di sviluppare le forze umane essenziali, di formarsi come essere umano «ricco di bisogni perché ricco di qualità e di relazioni», ricco di capacità. Tema celebre del giovane Marx. Fra le qualità umane vi sono la socialità e la coscienza, ma soprattutto vi è la libertà come possibilità di realizzare se stessi come persone. Per il marxismo, ritiene in questa fase, il valore della persona appartiene ai valori supremi. Il comunismo è ancora qui concepito come l’unica forma sociale che possa consentire il superamento dell’alienazione e la possibilità di espressione piena della personalità: un socialismo dal volto umano. È una forma idealtipica di forma sociale e di personalità, che non aveva niente a che fare col comunismo reale da cui era perseguitata.

La sociologia della vita quotidiana

Certamente fu un gesto teorico trasgressivo in quel contesto occuparsi della vita quotidiana. Nella Sociologia della vita quotidiana (1970) la vita quotidiana è presentata come il mondo nel quale gli individui vivono nella loro concretezza e di cui nessuna teoria può fare a meno. Il suo progetto consisteva soprattutto nell’indagare come cambiano le forme di vita. La vita quotidiana è necessariamente inautentica, come pensava Heidegger? A questa domanda la risposta della Heller è decisamente negativa. L’autenticità di una persona non deriva dal fatto – impossibile – di lasciarsi la quotidianità alle spalle, bensì dalla relazione che riesce a stabilire con il suo mondo e con se stessa. Tale rapporto può essere di totale identificazione con essa – e dunque particolaristico e inautentico – oppure individualistico e autentico, cioè capace di guardare oltre di essa e costruire altre dimensioni dell’essere. Heller ritiene che solo promuovendo nuove forme di vita come strategia di cambiamento si possano creare le condizioni di uno sviluppo autentico delle persone.

Martin Heidegger

E dunque, in sostanza: non è solo la rivoluzione politica il punto, quella che può cambiare le forme di vita. Più tardi parlerà di «rivoluzione della vita quotidiana» e considererà questa, insieme con la categoria di «bisogni radicali», il suo contributo più importante alla filosofia new left, della quale si sentiva ormai parte. È la rivoluzione sociale il punto. Aspetto che viene definito e arricchito sul piano teorico con un rinnovato concetto di «bisogni radicali», che contribuì alla sua affermazione come filosofa influente e che è presente nella sua Teoria dei bisogni radicali in Marx (1974).

I bisogni radicali

Cosa intende Heller per bisogni radicali? Essi sono tali poiché sorgono nella società capitalistica, quando si sia preso coscienza della propria condizione di alienazione, ma non possono essere soddisfatti in quella stessa società. Sono bisogni non “integrabili” nella società capitalistica da cui contraddittoriamente si sviluppano, come dice P.A. Rovatti nell’Introduzione all’edizione italiana. Per poterli soddisfare, gli uomini devono realizzare una formazione sociale completamente diversa, che ristrutturi radicalmente il sistema dei bisogni e consenta la realizzazione della «personalità “profonda” e ricca di bisogni». La categoria dei bisogni radicali diventa così il paradigma centrale del cambiamento. Un paradigma alternativo a quello delle «forze produttive», che invece era centrale nel marxismo classico e ortodosso. L’assunzione di questo nuovo paradigma produceva sul piano teorico uno slittamento esplicito e argomentato dalla rivoluzione politico-economica alla rivoluzione sociale. Dopo aver presentato la dimensione dell’uomo ricco di bisogni e di sentimenti come valore fondativo del progresso umano, ora faceva un passo in più sostituendo un nuovo paradigma a quello economico o politico tradizionalmente teorizzato fra gli interpreti di Marx.

Ma nei primi anni ’80 – dopo l’emigrazione (prima in Australia e poi negli USA) a cui lei e tutto il gruppo furono costretti nel 1977 dopo un processo sommario che sentenziò l’allontanamento dall’Università e il divieto di pubblicare – cambia invece decisamente prospettiva e opera una rottura definitiva con la filosofia della storia per compiere il salto dal marxismo, per quanto critico, a una forma peculiare di esistenzialismo ispirato all’individualismo di Kierkegaard. Una rottura descritta come l’abbandono della grande narrazione, come il rifiuto dell’illusione di occupare un posto privilegiato nella storia, di conoscere la verità e il futuro.

(Il contributo è tratto dalla conferenza svolta il 16 gennaio scorso nel ciclo Rileggere i classici per pensare il presente organizzato dall’Istituto Gramsci Toscano in collaborazione con la Biblioteca delle Oblate di Firenze)