Da Maria Maddalena a Penelope, la poesia dalla parte delle donne

La raccolta poetica di Silvia Patrizio, Smentire il bianco, pubblicata da Arcipelago Itaca, si conclude con una sezione intitolata Col digiuno negli occhi: si tratta di poesie in cui la voce poetica si incarna in quella di figure femminili appartenenti ai miti occidentali. La sezione si apre con un componimento in cui è Maria Maddalena a parlare:

Non potevo muovermi
senza che il suo sguardo strofinasse
la mia ombra. Ho deciso di seguirlo
corteggiami pensavo
confondendo il suo volto con l’innocenza
di dio.
Di chi è il sacrificio
quando non sai se restare è coraggio
o una gioia malriposta cosa
significa amare
se la sua vita è tutto e la tua
un accanto.
È la sua guerra
ad avermi cambiata: la violenza
di oltrepassare la cruna
e darmi intera al suo progetto –
c’è un ordine, in ogni morire, che conquista (p. 51).

Una poesia costruita sulla evocazione

È una poesia molto sottile, perché costruisce la sua pregnanza semantica sull’evocazione, anziché sull’invocazione. L’io lirico non esiste di per sé, ma ha valore solo in quanto luogo in cui il divino lascia la sua traccia: la figura del Cristo non viene mai nominata, eppure aleggia in questi versi, come una sorta di riflesso che si intravede sul corpo di Maria Maddalena. Sin da subito, la donna si pone come figura passiva: di fronte all’Altro, ella desidera essere corteggiata, cioè diventare oggetto del desiderio.

I versi in rientranza permettono di scomporre la poesia in tre parti, le quali hanno la funzione di mostrare in crescendo la tragicità della figura di Maria Maddalena. Nella seconda parte, il grande sacrificio della Croce viene rappresentato come un momento che getta nell’ombra un altro sacrificio: quello dell’umanità stessa, poiché nella visione cristiana a contare non è tanto l’affermazione di una propria personalità, ma la capacità di emulare in tutto e per tutto il Cristo. Il cristiano è solo un’appendice di quel tutto già definito che è Gesù.

Volendo, si può leggere in questi versi anche una critica femminista: dietro al grande uomo che si sacrifica si nasconde il sacrificio silenzioso delle donne, che vengono assorbite nella voce maschile e costrette a essere sue mere “costole”. Nella terza parte, l’annichilimento dell’io poetico è definitivo: la donna si “dà intera” al progetto dell’Altro. Da notare l’uso di termini militari: “guerra, “violenza”, “ordine”, “morire”, fino all’ultimo, il più importante, “conquistare”. Ecco: questa poesia mostra come il senso del divino possa trasformarsi in una sorta di forza colonizzatrice, che filtra nella nostra gola per farci dire ed essere ciò che lei vuole. Il divino come “possessione”, come alito che annulla la nostra volontà e penetra nel nostro corpo. Un divino a immagine e somiglianza dell’idea del maschio, che tratta l’umanità come un mero guscio in cui far albergare il suo Spirito, come se ogni individuo fosse vuoto e quindi spazio da riempire/conquistare.

La scrittura di Patrizio stessa è tragica: dà voce a delle figure femminili proprio per mostrarci come, di fatto, loro non abbiano una voce che sia propria, poiché il loro punto di vista è tarato su quello dell’uomo:

Volevo esserti approdo
essere il luogo di ogni ritorno
e sulla tela escogitare il mio tragitto:
algoritmo di tenacia di una donna.

In questi versi è Penelope a parlare: anche qui, la donna è una figura concava, che esiste solo in quanto vuoto da riempire, in quanto spazio di accoglienza, in quanto braccia che attendono un corpo da coccolare. Una donna ridotta a vagina, cioè a riparo per il benessere altrui.

La sezione, e la raccolta tutta, termina con i seguenti versi, dedicati alla figura di Ophelia:

Ecco il dettaglio, l’ultimo
a chiudere la scena:
l’inchino del salice
sulle sue radici.

Di Migdalmat97 – Opera propria, CC BY-SA 4.0 da Wikipedia

Il dolore della donna nell’oppressione di amare

Patrizio, nella sua raccolta, mostra come il male, inteso soprattutto come dolore fisico, non vada rappresentato attraverso il linguaggio della ferita, ma tramite l’inchino verso le proprie radici, cioè una sorta di venerazione/sottomissione nei confronti di ciò che impedisce ogni movimento. Il dolore della donna, secondo Patrizio, si manifesta in maniera più decisa nella lingua di colei che mostra di essere accecata dall’adorazione delle proprie catene: il tragico, fin qui tanto evocato, come l’oppressione che viene dal proprio amare.

Come ricavare dal fango
il senso corale del danno?
Ci si addestra a enumerare
i personaggi della storia:
la matta l’adultera la vedova
la madre la croce l’esercito
di girasoli in marcia compatta
a rinominare la luce.

Smentire il bianco, quindi: mostrare l’inganno della visione del Bene propugnata dai vecchi miti, una visione fallocentrica, che getta la dimensione femminile nella sottomissione. E la luce potrà tornare a splendere solo se si inizierà ad adoperare un linguaggio nuovo, che scaturisce dall’esperienza femminile, soprattutto di quelle donne che sono state bistrattate dalla visione del maschio, definite per le loro “mancanze”: la matta, l’adultera e la vedova. Cioè tutte quelle donne che sono state capaci di allontanarsi o sopravvivere alla presenza del proprio uomo.

Silvia Patrizio, Smentire il bianco, Osimo, Arcipelago Itaca, 2023.