Da Corbyn a Sanders
il vecchio che è nuovo

Con il titolo “Everything old is new again” (“Tutto il vecchio è tornato nuovo”) nell’agosto del 2016 è comparso su Jacobin – rivista di riferimento della sinistra radicale statunitense – un articolo sulle nuove forme di protesta e rivendicazione della classe lavoratrice a firma di Jane McAlevey, esperta di organizzazione sindacale e contrattazione. Un tema non di poco conto se si pensa che il presente sistema economico è stato definito da Adolph Reed come “Capitalism without a labor opposition” (“Capitalismo senza opposizione del lavoro”) e che le nuove generazioni sembrano sempre più sfuggenti tanto alla dimensione della sindacalizzazione, complici forme di contratto e condizioni lavorative differenti rispetto a quelle del ventesimo secolo, quanto alla partecipazione politica ed elettorale.

Di questa caratteristica “inorganizzabilità” dei giovani e più in generale dell’impoverimento della classe media (come ben mostra il noto “elefante della globalizzazione” di Branko Milanovic) ha pagato il prezzo soprattutto quella parte politica che sulle lotte della classe operaia e lavoratrice aveva costruito la propria ragion d’essere: la sinistra, e, in particolare, quella socialdemocratica dell’ex primo mondo. In questo senso, per capire come mai tutto ciò che di innovativo si muova a sinistra in Occidente lo faccia spesso con il volto di anziani dal lungo cursus honorum istituzionale ma che chiedono una “rivoluzione democratica”, come successo nella Gran Bretagna di Jeremy Corbyn, nella Francia di Jean-Luc Mélenchon e persino negli Stati Uniti di Bernie Sanders, bisogna indagare il nesso fra antichi ideali, biografia e nuove forme di partecipazione.

Cosa unisce le esperienze di questi tre “grandi vecchi”? Esperienze nate in contesti diversi, in formazioni politiche con caratteristiche anche diametralmente opposte fra loro e in paesi diversissimi? Molti punti di programma, senza dubbio: la riconversione ecologica, l’intervento dello Stato in economia come regolatore del mercato e della finanza e come stratega di innovazione in alcuni settori, la rivendicazione dell’esigibilità di diritti da garantirsi universalmente e gratuitamente quali sanità, istruzione, pensioni, assistenza sociale, la difesa dei beni pubblici dalla privatizzazione, la redistribuzione delle ricchezze e dei redditi, la condanna degli interventi bellici in Medio Oriente, la lotta a quello che spesso viene richiamato per brevità come “l’1%”. Li accomuna quindi la proposta di una serie di policies che, se implementate, cambierebbero fino a renderlo quasi irriconoscibile il sistema capitalistico attuale.

Se esistesse ancora una qualche forma di internazionalismo efficace a sinistra, il fatto che le forze che abitano lo stesso campo seppur in luoghi geografici differenti si richiamino allo stesso programma sarebbe persino banale. In fondo i tre con le loro piattaforme (le quali risentono dell’influenza degli studi di eminenti economisti quali Stiglitz, Mazzucato, Piketty ecc.) hanno aggirato la crisi della sinistra politica che parte proprio dall’inconsistenza della parola “sinistra” richiamandosi piuttosto ad una dottrina politica ben precisa: quella del socialismo.

Non è un caso che tanti giovani si siano avvicinati incuriositi alle loro campagne elettorali. Il principale mezzo con il quale i cosiddetti millennials si interfacciano con la politica – quando lo fanno – è internet e digitare su Google “socialismo” permette di trovare una serie di precetti politici, una filosofia e degli avvenimenti storici che narrano di lotte condotte da collettivi, e consente di trovarli a prescindere dall’opinione positiva o negativa che questi contenuti possano suscitare nel fruitore. Intuitivamente, digitare “sinistra” porta a risultati assai più problematici se si è in cerca di una collocazione elettorale e non si è particolarmente politicizzati.

Ma anche guardando fuori dal virtuale, “Sinistra” negli anni ha infatti fornito un’etichetta posta tanto su quelle esperienze liberal-socialdemocratiche che hanno accettato e condiviso gli assunti della globalizzazione neoliberista, quanto su quei movimenti quali quelli del World Social Forum e di Genova 2001, che contestavano e si opponevano a questo sistema.

I casi qui richiamati sembrano aver trovato la chiave per rompere la dicotomia fra entusiasti della globalizzazione/no global, proponendo un altro modello di sviluppo globale, a partire dal Governo del proprio paese. È infatti proprio la loro concezione del Governo a rendere efficaci e non residuali le loro proposte politiche, come pure erano state descritte da tutti i più importanti media dei diversi paesi. Una delle convinzioni che li unisce è quella secondo la quale debbano essere la politica e non l’economia e il mercato a decidere per le società e le persone. Non è un caso che spesso Sanders si richiami a Papa Francesco e che Mélenchon faccia continui richiami all’umanità nei suoi comizi. Per costruire un sistema che rimetta al centro l’uomo e non il profitto sarebbe quindi necessario regolamentare la finanza, rivedere le regole del commercio globale e, alle nostre latitudini, riscrivere i presupposti di funzionamento dell’Unione Europea.

Ciò che ulteriormente unisce le loro proposte è il tentativo di uscire da quella situazione che Colin Crouch ha chiamato di “post-democrazia”, ossia un regime di formale buon funzionamento delle istituzioni democratiche nell’assenza di reale potere decisionale, per restituire ai cittadini la facoltà sostanziale di autodeterminare il proprio destino collettivo. Se si governa, e le loro sono proposte intrinsecamente governative e in quanto tali riformiste, si deve poter costruire un paese e un mondo differente da quello che già pensano e pongono in essere le multinazionali quali ad esempio Amazon, Facebook, le compagnie petrolifere, il mondo della finanza Wall Street e anche diverso da quello configurato dall’asse Berlino-Bruxelles con le sue politiche di austerità.

Non è bizzarro che proposte del genere provengano da chi ha vissuto la costruzione della socialdemocrazia e non sia stato partecipe del suo smantellamento materiale e ideologico: di fronte allo smantellamento dello stato sociale, della concessione di sgravi fiscali ai più ricchi, alla deregolamentazione dei mercati ecc. e in generale di fronte a tutte quelle norme che spostavano potere nelle mani dei privati traendolo dalle istituzioni pubbliche, hanno continuato per anni ad affermare la propria contrarietà a questo tipo di azioni. Azioni spesso esercitate dal partito di appartenenza, contro il quale ha votato in dissenso centinaia di volte Corbyn, o di quasi-appartenenza come nel caso di Sanders che si è sempre candidato da indipendente, fino a portare allo strappo definitivo come nel caso di Mélenchon che nel 2008 ha abbandonato il PS.

Esecutivi come quelli di Clinton e di Blair vengono nelle loro proposte additati come vittime dell’ideologia del “there is no alternative”, grazie alla quale (o a causa della quale), larghi strati di popolazione e intere generazioni – in particolare le più giovani – si sono convinti che la politica fosse inutile e che i politici fossero “tutti uguali”. Tutto ciò che è vecchio sembra tornato nuovo perché per migliorare le condizioni materiali di chi non è nato in modo fortunato, tutto ciò che era nuovo è parso inutilizzabile. Le biografie di questi tre ultra sessantenni (ultrasettantenni anche) avevano molto più da dire alle platee gremite di ventenni di tanti programmi pieni di buone intenzioni mai realizzate.

Eppure le decine di migliaia di persone che affollavano i loro appuntamenti di campagna elettorale non erano in cerca di un leader, ma di una motivazione per tornare a lottare, e per questo la loro leadership è risultata così forte e non si è esaurita nella singola personalità, che pure è stata essenziale per dare autorevolezza e credibilità al progetto. La France Insoumise, “Our Revolution” nata negli USA e il Labour Party come lo conosciamo oggi non sarebbero stati possibili senza di loro: gli “inorganizzabili” sembrano aver bisogno di uomini di un’altra epoca per organizzarsi, e questo è esattamente quello che è successo durante le loro campagne tramite i social network e persino con ingegnose forme di mobilitazione, come il couchsurfing degli elettori di Sanders, costretti a spostarsi a volte anche per molti km per votare alle primarie, il mailbombing organizzato dai giovani di Momentum per aiutare Corbyn a gestire un gruppo parlamentare che voleva disattendere continuamente la sua linea e la diffusione virale del video di Mélenchon che tiene comizi via ologrammi quasi come in Guerre Stellari.

All’interno delle loro campagne che hanno messo insieme intellettuali e classe media impoverita delle zone ex-industriali, precari e lavoratori sindacalizzati, militanti storici e primi votanti, i giovani sono arrivati come tanti altri disillusi e arrabbiati: come singoli attratti da un messaggio. Solo poi si sono avvicinati, conosciuti, riconosciuti e infine hanno costituito un embrione di soggetto politico. Un soggetto “per qualcuno” e “contro qualcosa” come lo dovrebbero essere i partiti ma che può anche non essere tale.

Per coloro che ritenevano che “vecchio e nuovo”, “conservazione e innovazione” e persino “tradizionalismo e progressismo” fossero i più attuali assi di conflitto politico, queste esperienze rappresentano un originale terreno di smentita. Nel primo turno delle elezioni presidenziali del 2017 Mélenchon ha totalizzato il 29% dei consensi di coloro che hanno fra i 18 e i 24 anni, il 26% fra gli under 35. Macron e Le Pen si assestano fra il 23 e il 21 nelle stesse fasce d’età. Chi dichiara di sentirsi di sinistra ha votato per il 40% Macron e per il 38% Mélenchon mentre i non partigiani hanno scelto Mélenchon al 24%, 22% Le Pen e 21% Macron [Fonte: Regards.fr]. Nelle elezioni britanniche del 2017 il 66% dei giovani fra i 18 e i 19 anni ha votato Labour, con una percentuale che continua a decrescere al crescere dell’età dei votanti fino al 19% degli over 70, il 64% degli studenti e il 54% dei disoccupati ha scelto di votare laburista [fonte: yougov.co.uk]. Il Washington Post ha stimato che Sanders abbia preso circa il 29% di voti alle primarie nella fascia under 30 in più di quelli di Clinton e di Trump sommati.

Per chi crede nelle proposte e nelle rivendicazioni di questi tre “grandi vecchi”, quelli appena citati non sono solo dati ma promesse di futuro, proprio come quella di Jeremy Corbyn che ha dichiarato la sera del voto britannico, mentre si contavano le schede: “qualunque sia il risultato finale, la nostra campagna avrà cambiato la politica in meglio”. Questo sembra essere il punto di volta: essi hanno promesso di cambiare le politiche e la Politica, hanno sostenuto apertamente che finché esisterà il capitalismo esisterà anche una possibilità per il socialismo. In tempi di crisi economica, valoriale, sociale, questi dati sembrano suggerire che esiste chi non si sarebbe accontentato di nulla di meno: si stima che buona parte dei voti che sono mancati ad Hillary Clinton per sconfiggere Donald Trump siano proprio di quei giovani e di quei disillusi finiti l’8 novembre 2016 nell’astensione in misura ancora maggiore che al rivale.

Quella che fra il 2015 e il 2017 ha rappresentato la loro guerra di movimento (il congresso del Labour, le primarie del Partito Democratico statunitense, la candidatura alla presidenza della Repubblica francese) è diventata oggi, in ciascuno dei casi citati, guerra di posizione affidata innanzi tutto proprio agli “inorganizzabili”, della quale è impossibile prevedere l’esito. Tuttavia si può riconoscere una prima parziale vittoria: aver attivato o riattivato al voto centinaia di migliaia di persone sfiduciate nelle possibilità della democrazia rappresentativa, a disagio nel corrente sistema politico ed economico, il cui consenso è sovente terreno fertile di conquista per le destre estreme.