Biden, Putin, Xi: torna
la politica estera
Europa in affanno
Nelle ultime settimane sembra essere ridiventata centrale la politica estera su scala mondiale. Questo a guardare attentamente alcuni eventi di rilievo che hanno trovato commenti e valutazioni, di diverso tipo naturalmente, sia degli attori istituzionali che tra gli specialisti.
La spinta della nuova presidenza Usa
L’elenco potrebbe essere anche relativamente lungo, ma per gli aspetti essenziali possiamo limitarci all’avvio della presidenza di Joe Biden, alla ripresa di tavoli negoziali importanti (quello del dopo-Parigi sul cambiamento climatico e quello sul nucleare iraniano), alla riproposizione muscolare da parte di Putin (manovre militari ai confini con l’Ucraina) della ricerca di un ruolo per la Russia che, peraltro, se l’è già conquistato causa assenza degli altri, nel Mediterraneo. Anche la Cina, dall’alto del suo secolare “spirito di non interferenza” dimostra di muoversi a suo agio sulle principali questioni aperte di politica estera.
Concentrati a livello globale su una single issue: la pandemia da COVID 19, ci eravamo forse dimenticati della politica estera e dei suoi complessi risvolti diplomatici e militari.
È vero, sì è trattato (e lo sarà ancora per un po’ di tempo) di un evento drammatico, “la terza guerra mondiale”, di una questione simmetrica che ha colpito paesi ricchi e poveri di tutto l’emisfero. E anche se adesso ci accorgiamo che le reazioni (campagne vaccinali e gestione dei lockdown) hanno cominciato ad assumere un carattere differenziato, non c’è dubbio che la pandemia e la spasmodica ricerca di soluzioni hanno calamitato l’attenzione della politica mondiale, oltre che l’interesse delle opinioni pubbliche.
A ben vedere, però, molto si è rimesso in moto negli scenari mondiali. In primo luogo, certamente, il cambio di presidenza negli Usa. In questo caso il paradigma di Trump è stato letteralmente rovesciato da Biden: riaffermazione del multilateralismo in tutti i campi dove era possibile e rilancio del ruolo USA.
America is back! Il contrario di America First!
È bastato questo annuncio per riaprire canali di dialogo (e di duro confronto anche) con controparti “speciali” come la Cina (soprattutto per le questioni commerciali ed economiche) e con la Russia (per le questioni strategico-militari e il posizionamento geopolitico).
In questa fase sono prevalsi senz’altro gli aspetti positivi. Il negoziato globale sul cambiamento climatico, sotto l’egida delle Nazioni Unite, non solo può riprendere, ma gli stessi Stati Uniti cominciano ad allinearsi ad ambiziosi obiettivi, da raggiungere entro il 2030-50, sul solco di quanto (riconosciamolo) ha già fatto l’Unione europea. La ratifica (al limite della sua scadenza) dello START 2 sugli armamenti nucleari (eredità della fine della guerra fredda e degli accordi tra Gorbaciov e Reagan). I segnali positivi lanciati ai negoziatori riuniti a Vienna per la ripresa dei colloqui sulla gestione dell’accordo con l’Iran, dal quale Trump aveva rumorosamente fatto uscire gli USA.
E ci sono ovviamente aspetti negativi o tali da lasciare comunque ampi margini a preoccupazione e imprevedibili conseguenze. Per esempio, la conferma ufficiale del ritiro Usa (e con loro degli altri paesi della NATO) dall’Afghanistan il prossimo settembre, basato per ora solo su un fragile (e peraltro non concluso) negoziato con i “nemici” talebani.
Biden ha anche cercato di dare una cornice a questa nuova fase (trovando un interlocutore attivo nel Presidente francese Macron) lanciando, l’ha fatto (online) a febbraio all’annuale Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, l’idea dell’Alleanza delle democrazie.
Sarebbe ingenuo però pensare che questa semplice iniziativa possa convogliare in uno scenario unico la realtà mondiale. Esistono innanzitutto le aree dei conflitti aperti o frozen, dispersi praticamente su tutto il pianeta, concentrati soprattutto nel Medio Oriente allargato (Siria, Yemen Israele-Palestina), in Africa, nel Caucaso (conflitto armeno-azero per il Nagorno-Karabakh), Georgia e soprattutto in Ucraina (secessione del Donbass e del Donetsk e questione dello status della Crimea annessa dalla Russia).
Questo giro d’orizzonte potrebbe continuare. Non sarebbe male, peraltro, esercitarsi in questo sforzo, perché è evidente che se la pandemia ha provocato un effetto di appiattimento e rinculo nelle relazioni internazionali per il suo carattere simmetrico, dalle sue conseguenze economiche e sociali, e dai nuovi equilibri finanziari che ne risulteranno nelle molte crisi di area, non c’è che da aspettarsi la recrudescenza di conflitti e tensioni.
E a questo punto bisogna cambiare registro nell’analisi. Magari facendo un passo indietro.
Su quali basi si vuole ricostruire un ordine mondiale deflagrato dopo la crisi della guerra fredda, la lunga pausa della politica estera americana durante la presidenza di Obama (ad avviso di chi scrive giustificata dalla necessità di riposizionare il suo paese dopo gli effetti disastrosi della guerra in Iraq), il sostanziale fallimento delle “primavere arabe”?
In un recente articolo apparso su Repubblica (26 aprile, ndr) Ezio Mauro coglie certamente un elemento essenziale (anche se non rinuncia a riproporre le categorie del bene e del male (amarcord Reagan?). Guarda a Putin e alla Russia e si interroga sul futuro del confronto Est-Ovest.
Analisi interessante che, persino con una certa sorpresa, colloca la Russia di Putin in un quadro di equilibri mondiali dopo che, come ricorda lui stesso, si era pensato di declassare a “potenza regionale”, l’erede principale dell’ex-Unione Sovietica. Addirittura si evoca lo scenario di Jalta per inquadrare le relazioni tra le grandi potenze. Riferimento storicamente corretto che ci porta peraltro all’altra grande questione elusa negli ultimi due decenni. La crisi profonda delle Nazioni Unite e del sistema multilaterale di Bretton Woods (entrambi figli dello spirito di Jalta).
Il “cappotto vuoto dell’Europa”
Ci siamo avvicinati, conclusivamente a casa nostra. All’Europa o meglio all’Unione europea. Ancora Mauro utilizza una bella metafora. Immagina i nuovi protagonisti nei panni della vecchia (e famosa) foto di Jalta che ritrae Roosevelt, Stalin e Churchill. Putin “ha già indossato il cappello militare come nella fotografia della storia”, scrive. Ruoli diversi per Biden, piuttosto nel ruolo di Truman (politica del cointainment: “sì lo è” la risposta di Biden alla domanda se Putin sia da considerarsi un killer), e per un Churchill il cui “grande pastrano doppiopetto” non andrebbe bene a nessuno dei leader europei (e per di più c’è stata la Brexit, aggiungiamo noi).
È vero, si può concordare: “è vuoto il cappotto dell’Europa”. Sono noti i limiti istituzionali della politica estera e di sicurezza comune europea (PESC). Regola dell’unanimità, dimensione intergovernativa, divisione profonda tra paesi grandi (e anche piccoli) su molti scenari (dalla Libia, alla Siria, per stare al Mediterraneo).
Quei limiti, a ben vedere, sono in realtà politici, figli spesso di gravi errori. Per spiegarmi preferisco citare intanto l’unico caso in cui l’UE non ha compiuto errori. È successo quando ha investito, all’unanimità sul negoziato con l’Iran sul nucleare sino alla firma dell’accordo nel 2015 (un giorno mi son sentito chiedere da una docente iraniana: com’è possibile che a Teheran la signora Mogherini sia più famosa che in Italia? In realtà, lei era al centro della foto al momento della firma dell’accordo con i grandi della terra perché l’UE aveva ed ha la presidenza del blocco di paesi 5+1 che quell’accordo lo firmarono).
Al contrario è stato sicuramente ambiguo l’atteggiamento europeo verso la Turchia. Nel 2005, l’Unione europea decise (di nuovo all’unanimità) di aprire il negoziato di adesione con questo paese. Tutti erano consapevoli che si sarebbe trattato di un percorso lungo e difficile (durerà almeno dieci-quindici anni si diceva già allora) e infatti siamo arrivati ad oggi. Indiscutibili le responsabilità dell’autocrate Erdogan, attratto da una spirale fondamentalista e antidemocratica che contrasta le posizioni da lui espresse agli albori della sua ascesa politica e che favorirono l’apertura di quel negoziato. Quella porta, però, fu richiusa unilateralmente pochi mesi dopo dal Presidente francese Sarkozy.
E, per citare l’altro fronte vicino, contraddittorio il ruolo verso un paese decisivo come l’Ucraina. Esclusa l’idea di aprire un vero e proprio negoziato di adesione all’Unione, nonostante il colpo di mano tentato dalla presidenza di turno della Lettonia nel primo semestre 2015 nel pieno della rivolta popolare di piazza Majdan, l’UE ha reagito alle conseguenze drammatiche di quella “rivoluzione” con un atteggiamento di chiusura verso la Russia caratterizzato da sanzioni che vengono rinnovate periodicamente (e burocraticamente) per l’annessione della Crimea.
In questo caso il passo indietro dev’essere ancora più lungo. E tornare al momento della riunificazione tedesca del 1990. A un Gorbaciov, coraggioso ma sicuramente indebolito nel suo paese per il progressivo e rapido disfacimento del Patto di Varsavia, tutti i leader occidentali, dal Presidente Bush padre, al suo Segretario di Stato Baker, e soprattutto al Cancelliere Kohl, fecero una solenne promessa. La NATO non si sarebbe estesa ai confini dell’ex-URSS (anzi neanche ai paesi dell’Europa centrale ed orientale, si disse e si scrisse). Addirittura l’allora premier Berlusconi, a Pratica di Mare, concretizzò la proposta di un “Consiglio di cooperazione” tra la Russia e la NATO.
Successe il contrario.
Questa è storia, le cose sono andate diversamente. Lo sappiamo. Ma se pensiamo al cappotto “vuoto” dell’Europa ci viene da pensare all’occasione mancata di offrire (in realtà si tentò, lo fece allora il Parlamento europeo) una partnership speciale ai paesi del fianco est dell’Europa allargata (Bielorussia e Moldava oltre che Ucraina), e a quelli del Caucaso occidentale (Armenia, Azerbaigian, Georgia) per creare un ponte con la Russia. Offrirle un piano complesso di accordi economici e commerciali, in una cornice politica (“Il ring degli amici”, lo chiamò Romano Prodi, Presidente della commissione europea) che avrebbero avuto l’effetto, probabilmente, di stabilizzare l’area e garantire (all’UE) un ponte ideale verso la Cina.
Inutile tentare una conclusione da questa radiografia. Forse è possibile trarne almeno una lezione. La politica estera, certamente ancorata a principi e valori di pace, libertà e democrazia, ha bisogno anche di una adeguata valutazione della realtà (realpolitik?) e soprattutto di una visione strategica. Quando è stato così, a pensarci bene, le cose sono andate un po’ meglio di quanto non appaia oggi.
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