Curdi, un popolo usa e getta
Ti conosco dalla storia leggendaria
Alla costruzione di Babilonia
Nel periodo della regina Semiramide
Nei giardini pensili
Nella cultura della Mesopotamia
Nei libri sacri
E sei la mia meraviglia nel mondo bella mia
Ti conosco di una storia liberata, celebrata
Nel periodo del fabbro Kawa
Nella città di Ninowa
Accendendo il fuoco della libertà
E ardendo le torce da una mano all’altra
Sulle montagne
Ti conosco dalle storie vinte
A Kobane
Sei una combattente della libertà
E ti conoscerò bella mia
Amore mio
Io so e anche tu saprai
Che la Mesopotamia sarà il nostro amore fluente.
(“Meraviglia del mondo” del poeta curdo Doğan Akçali)
“Prova a chiedere a uno di questi bambini che si rincorrono per strada cosa vuole fare da grande. Probabilmente la maggior parte di loro ti risponderà il medico o l’avvocato”.
Alla mia faccia un po’ sorpresa Ayse – una giovane curda che vive nel Sudest della Turchia – mi guarda con i suoi grandi occhi neri e sospira: “Lo vogliono fare per sopravvivere, lo sanno che da grandi dovranno dare una mano. Fai il medico: curi i feriti e chi non se lo può permettere. Fai l’avvocato: difendi chi finisce in carcere con ‘accusa di terrorismo”. Ricordo questo discorso di più di dieci anni fa quando si parlava di pragmatismo curdo e del fatto che i curdi – se vogliono – devono aiutarsi da soli. Era anche un periodo di forte repressione nei confronti di questa minoranza da parte del governo di Ankara, solo che non se ne parlava molto perché era il momento del “modello turco” e dell’ascesa di Erdogan, descritto dalla stampa occidentale come il promotore della sintesi turco-islamica e leader di un partito, l’Akp, che stava sperimentando la democrazia islamica à la turca.
I bambini che giocano per le strade di Diyarbakir hanno visto i tank nelle strade, sanno che se partecipi a una manifestazione la polizia ti può portare in carcere e spesso, nelle calde estati cittadine, l’unico rumore che senti è quello che viene dal cielo, quando sfrecciano i caccia turchi che vanno a bombardare i guerriglieri del Pkk sulle montagne. I bambini curdi sanno cos’è uno stato di guerra, un coprifuoco, ma nonostante tutto giocano rincorrendosi per le strade, qualcuno vende anche cestini di frutti appena colti sui marciapiedi.
Eppure quando si parla di curdi un ruolo fondamentale viene svolto dalla volontà di negazione della loro stessa esistenza, esecuzione di una politica precisa da parte dei potenti di turno. I curdi spesso sono stati o sono fantasmi per le istituzioni statali nei paesi in cui vivono: hanno ricevuto un’istruzione scolastica in un idioma che non comprendevano, perché la loro lingua madre, quella che si parla in casa o nei villaggi più remoti, era vietata dallo stato centrale. Adesso però – dopo il tempo della negazione e della tentata assimilazione – i curdi esistono, almeno come etnia. Hanno anche un’entità amministrativa regionale nel Nord dell’Iraq. la libertà di manifestazione e di espressione sperimentata nei paesi della diaspora, in cui questo popolo senza nazione è disseminato, inoltre, ha giocato un ruolo fondamentale per l’esistenza della “questione curda” così come la conosciamo oggi e, negli ultimi anni, i social network hanno rafforzato l’idea di identità curda e quindi il diritto di questa etnia a esistere, a essere popolo con una specifica cultura. Né araba, né turca, né persiana.
I curdi sono tornati protagonisti nelle cronache dei mass media solo di recente, quando l’Occidente è stato costretto a far fronte all’avanzata del sedicente Stato Islamico in Iraq e Siria. I guerriglieri curdi, sia che fossero i peshmerga del Kurdistan iracheno sia che appartenessero alle Unità di protezione popolare siriane (Ypg), sono stati e sono ancora i combattenti sul terreno di cui si sono servite le potenze occidentali per contrastare l’avanzata degli uomini del Califfato. L’eroica difesa di Kobane è stata forse lo spartiacque informativo. Così i curdi sono diventati gli alleati perfetti delle nazioni avanzate del prospero Occidente, interlocutori privilegiati anche perché vicini ai valori laici, con strutture di autogoverno o formazioni militari che contemplano un ruolo attivo delle donne e che non si risparmiano di fronte al nemico perché ne va della loro stessa identità ed esistenza. Docili e buoni da usare all’occorrenza, ma spesso sacrificabili sull’altare delle alleanze geopolitiche quando non più utili.
La missione militare della Turchia nell’enclave curda di Afrin, su suolo siriano, senza opposizioni da parte di Russia e Stati Uniti ne è un esempio. Sui tetti di Afrin sventolano le bandiere turche dopo che i curdi dello Ypg hanno abbandonato il campo di battaglia “per salvaguardare la popolazione civile” come hanno fatto sapere. Subito dopo l’esercito di Ankara ha distrutto la statua del fabbro Kawa, una figura leggendaria del movimento curdo, che si ergeva sulla piazza principale di Afrin. Nota come “la montagna dei curdi” (Kurd dagh) Afrin era l’unica grande città dell’omonimo cantone curdo che, insieme alle province di Kobane e Jazira, formava l’entità territoriale curda della Siria del Nord a cui durante la guerra civile siriana è stato dato il nome di Rojava.
I curdi – la quarta etnia mediorientale dopo arabi, persiani e turchi – sono un popolo di circa 35 milioni di persone che vive tra Turchia, dove risiede il gruppo più numeroso che equivale a circa il 20 per cento della popolazione, Iraq con stime tra il 15 e il 20 per cento, Iran in cui sono l’8 per cento, in Siria circa il 10 per cento e una minima percentuale in Armenia. Sono un popolo molto antico, la loro lingua è di origine indoeuropea. La curiosità è che il primo in Occidente, era il 1787, a pubblicare una grammatica della lingua curda fu un italiano, il domenicano Maurizio Garzoni, considerato il “padre della curdologia”.
(Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani, Nicola Pedde, “Curdi”, 2018)
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