Draghi, un altro governo tecnico capitola: è il momento di dire mai più

Comunque vada a finire il valzer della crisi diretto e interpretato da quel che rimane del Movimento Cinque Stelle – e sembra proprio che non vada a finire benissimo anche dopo che Mattarella ha respinto le dimissioni di Mario Draghi- un dato a questo punto è abbastanza chiaro: i governi di unità nazionale o di grande coalizione, guidati dal tecnico con i superpoteri speciali, si sono rivelati ormai troppo spesso la peggiore soluzione politica che si possa immaginare. E’ un dato oggettivo e bisogna prenderne onestamente atto.

La ricerca impossibile dell’unità nazionale

Il governo guidato da Mario Draghi ha navigato in buone acque suppergiù per un anno e sono ormai diversi mesi che balla strattonato da una parte e dall’altra. Il motivo è semplice, se non addirittura banale: è impossibile tenere insieme una maggioranza così variegata che raccoglie tutto l’arco dei partiti ad eccezione dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Ogni leader, piccolo o grande che sia, è – o dovrebbe essere – portatore di idee, di progetti e di interessi diversi che non si possono conciliare se non in casi davvero eccezionali. Se pensate che nemmeno nell’Italia degli anni Settanta, con una crisi drammatica, l’assalto del terrorismo e l’assassinio di un personaggio centrale come Aldo Moro, i governi di solidarietà nazionale sono riusciti a durare a lungo, avrete chiaro il dramma nel quale ormai si dibatte questo strano Paese da troppo tempo.

Il problema è che partiti ormai esangui, senza identità e senza idee, preferiscono ripararsi sotto l’ombrello del tecnico che ha una alta credibilità internazionale – che solitamente si riferisce alle élite economico-finanziarie – con l’obiettivo di nascondere la mancanza di una loro autonoma credibilità. In questo modo si riesce a stare sempre al governo pur non avendone titolo – il Pd lo ha fatto per quasi dieci degli ultimi undici anni senza mai vincere le elezioni, per fare un solo esempio – e si rinvia sine die la prova di mettersi davvero alla prova e di compiere scelte chiare. La conseguenza è un potere politico senza autorità e partiti politici senza popolo. Non possiamo sorprenderci poi che il livello di astensionismo elettorale si alzi costantemente e il disinteresse per la cosa pubblica raggiunga dimensioni drammatiche. Se alla battaglia delle idee e dei programmi alternativi si preferisce la manovra tattica, la mossa furba, lo sgambetto, allora la politica perde completamente il suo valore e produce scissioni dietro scissioni in una sagra del personalismo che mette paura e che rischia di minare la democrazia.

Due obiettivi per salvare il Paese

Ora, siccome sono convinto che, nonostante tutto, una differenza tra destra e sinistra esista e sia molto netta – o meglio dovrebbe esistere e essere molto netta – credo sia arrivato il momento di mettere fine alla “dittatura dei governi tecnici” e impegnarsi a costruire un sistema politico – forte di una legge elettorale proporzionale, come ha argomentato qui Antonio Floridia – che possa garantire l’esistenza di partiti veri e di governi politici in tutta la loro pienezza. Questo non vuol dire che è giusto aver aperto la crisi, costretto Draghi alla dimissioni poi respinte dal capo dello Stato e spalancato le porte a un periodo di incertezza e di confusione. Anzi, sarebbe utile, visto che manca una manciata di mesi alla scadenza naturale della legislatura che è prevista nella primavera del 2023, rimettere in sesto governo e maggioranza e andare avanti con lo stesso premier. Con due obiettivi precisi: dare un sostegno robusto ai lavoratori, ai pensionati e ai senza reddito che stanno subendo in modo drammatico la crisi derivata dalla pandemia e dalla guerra e lavorare per una legge elettorale senza fare porcate come quelle compiute con il Porcellum e il Rosatellum.

Le tensioni create da Conte e da quel che rimane del Movimento Cinque Stelle alla fine, comunque vada a finire, non lasceranno traccia nella storia, oltre che nella cronaca. Perché, nonostante siano servite a sollevare alcuni problemi reali che riguardano la parte più fragile del paese, sono il frutto di classiche manovre da “politichetta” che, come è successo spesso nella storia politica, sono andate forse persino oltre le intenzioni dei protagonisti. La mossa di Conte si è capito bene a che cosa mirava: perso un pezzo di partito con la scissione di Di Maio– anch’essa del tutto incomprensibile nelle sue motivazioni profonde –, ha cercato di farsi vedere, di dimostrare che esiste e che ancora conta qualcosa. Ma servirà a poco, sia per lui che per Di Maio, finché non faranno i conti seriamente con la cultura dalla quale sono nati, che ha favorito quella furia distruttrice e senza sbocco con cui hanno imbrogliato gli elettori e conquistato il Palazzo. Restandone alla fine completamente prigionieri, abbacinati da un culto del potere illimitato e senza più un’identità definibile.