Covid-19, la battaglia non è finita

La buona notizia è che il lockdown nella fase 1 ha funzionato. A dimostrarlo, oltre ai dati disastrosi che provengono dai Paesi in cui la misura è stata poco e male praticata come gli Stati Uniti, ora c’è una ricerca condotta dall’Università di Pisa in cui emerge che l’entità dell’epidemia nelle diverse regioni italiane è direttamente proporzionale al ritardo con cui è stata attuata la chiusura rispetto alla comparsa dell’epidemia stessa. In sostanza, i dati sul contagio sono peggiori laddove si è chiuso in ritardo. Lo studio viene citato in un editoriale appena pubblicato sulla rivista Epidemia e Prevenzione a firma di cinque epidemiologi che cercano di capire come arrivare preparati all’autunno.

Il virus circolerà ancora a lungo

covid-19La cattiva notizia è proprio che quello che accadrà in autunno relativamente a Covid-19 nessuno lo sa. Si può immaginare, fare scenari, disegnare modelli. Ad esempio, Margaret Harris dell’OMS ha detto qualche giorno fa che l’epidemia sembra non avere un andamento stagionale ad ondate, ma comportarsi invece come un’unica grande onda che andrà un po’ su e un po’ giù, anche in relazione alle misure che i Paesi prenderanno per rallentare il contagio. Ma certezze non ce ne sono. L’unica è che il virus è sempre qui con noi e continuerà a circolare probabilmente a lungo.

Ricordano i ricercatori che hanno firmato l’editoriale che siamo molto lontani dall’immunità di gregge e la conferma è arrivata lunedì scorso con i dati di sieroprevalenza sulla diffusione di SARS-COV-2 tra la popolazione italiana. L’indagine condotta dall’ISTAT con la Croce Rossa effettuando i test sierologici su un campione rappresentativo della popolazione italiana, ha permesso di stimare che 1 milione e 482mila persone siano state infettate dal virus, ovvero il 2,5% della popolazione, un dato sei volte superiore ai contagi registrati, ma che comunque lascia il 97,5% degli italiani suscettibili all’infezione. Inoltre, il virus non ha subito mutazioni tali da ridurne la pericolosità clinica. Le organizzazioni internazionali come OMS e ECDC ritengono che in autunno si possa ripresentare un picco di contagi anche dovuti a una reimportazione di casi dai Paesi dell’emisfero sud. Insomma, lo spegnimento completo dell’epidemia è giudicato da tutti improbabile.

L’Italia è pronta?

La parola chiave diventa, allora, preparedness che però, come dice Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani, “non va confusa con la preparazione fatta di circolari calate dall’alto e senza preventive verifiche di applicabilità”. E che, come sottolinea l’OMS, deve essere pensata Paese per Paese perché il modello unico per tutti in questo caso non funziona. Allora, noi italiani siamo pronti? Sì e no, sembra la risposta degli autori dell’editoriale che sono Paolo Vineis, docente di epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra, Lucia Bisceglia della Agenzia regionale strategica per la salute e il sociale della Puglia, Francesco Forastiere, direttore scientifico della rivista, Stefania Salmaso, ex direttrice del Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute, e Salvatore Scondotto, presidente dell’Associazione italiana di epidemiologia. Sì, perché le Regioni sono riuscite a mettere grosso modo in pratica le raccomandazioni internazionali per la fase 2, quella delle riaperture graduali, altrimenti probabilmente oggi avremmo a che fare con un numero di casi molto più alto. Quali erano queste raccomandazioni? “Che le Regioni fossero in grado di diagnosticare, trattare e isolare i casi di COVID-19 e i loro contatti. Inoltre, dovevano essere rispettate norme di distanziamento fisico, evitate manifestazioni collettive e doveva essere prestata attenzione ai soggetti vulnerabili. L’igiene degli ambienti doveva essere radicalmente migliorata e bisognava prevedere modalità di protezione individuale e pulizia sistematica e routinaria degli spazi pubblici”. No, perché le disparità tra le Regioni e le Province autonome è così grande che rischia di mettere a repentaglio il futuro.

L’indagine, promossa dall’Associazione Italiana di Epidemiologia su metodi e strumenti adottati dalle strutture di prevenzione delle ASL per interrompere le catene di contagio e i cui risultati sono pubblicati insieme all’editoriale, mostra infatti una grande eterogeneità delle risposte: “Secondo l’indagine dell’AIE, i dati raccolti con interviste ai casi sono stati registrati su una piattaforma regionale in 13 Dipartimenti di prevenzione tra i 44 coperti dall’indagine, mentre in 18 sono stati registrati solo a livello locale. Ad aprile, solo 8 Regioni sulle 14 partecipanti all’indagine avevano una piattaforma regionale per la registrazione e comunicazione dei dati più rilevanti. L’eterogeneità della risposta all’epidemia è evidente anche dal numero (da 30 a 140 a seconda delle ASL) e dalla natura degli operatori in essa impegnati”.

Le risposte necessarie

Ci vuole, insomma, un coordinamento delle Regioni, su cui insiste anche Ippolito: “Le malattie infettive non rispettano i confini regionali e la risposta richiede conoscenza dei dati e rapidità di intervento. Una cosa difficile con venti, anzi ventuno servizi sanitari differenti tra loro, anche se alcuni hanno fatto molto bene. Il coordinamento interregionale per la prevenzione esiste, ma non sono sicuro sia sufficiente. Ci vuole un’azione forte da parte dello Stato”.

A questo proposito, gli autori dell’editoriale forniscono una serie di raccomandazioni che qui riassumiamo e che vanno dal mettere in atto rigorose procedure operative per la sorveglianza (in modo da uniformare la raccolta dati e la risposta all’epidemia) al garantire l’inter-operatività dei sistemi informativi regionali (che spesso oggi hanno difficoltà a parlare fra loro), dall’adeguamento alla nuova fase delle piattaforme di sorveglianza al potenziamento di una rete di sorveglianza dei sintomi influenzali su scala nazionale basata su una rete di medici di medicina generale, pediatri e accessi al pronto soccorso. Dal potenziamento dei dipartimenti di prevenzione alla messa a punto di una comunicazione rapida, chiara ed efficiente. Dall’esplorazione di metodi innovativi di identificazione precoce dei focolai al potenziamento delle capacità diagnostiche. Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, si propone il mantenimento di una struttura modulare e flessibile nelle ASL per una risposta veloce nel caso di nuova emergenza, il potenziamento di attività di formazione, la predisposizione di attività di sorveglianza e screening delle popolazioni ad alto rischio, l’accesso ai dati della sorveglianza nazionale alla comunità scientifica. Infine, sul piano dei comportamenti, il mantenimento delle misure igieniche e comportamentali (dal distanziamento all’uso delle mascherine alla sanificazione degli ambienti) accompagnate da adeguate campagne informative e il monitoraggio della disponibilità dei dispositivi individuali di protezione.