Così PieroTerracina raccontava ai ragazzi la Storia e la sua storia
Sono passati quasi vent’anni, ma Piero Terracina mi torna in mente come se lo avessi visto ieri. Quando eravamo davanti all’albergo di Cracovia, ad aspettare nel freddo polacco il pullman che ci avrebbe portato ad Auschwitz-Birkenau. Non sapeva star fermo quel vecchio signore con la faccia che pareva fatta apposta per ospitare il sorriso. Si agitava, invitava i ragazzi a salire a bordo, con gentilezza e un pizzico di autorità dal dirigente d’azienda che era stato. Si capiva che, a differenza di tutti noi, era in piedi da ore (e poi lo diceva: “Dormo poco e male la notte, almeno quando siamo qui”), come se non vedesse l’ora di tornare laggiù. In quel posto.
Gli studenti romani
I ragazzi erano studenti delle scuole che i Sindaci di Roma, prima Francesco Rutelli e poi Walter Veltroni, portavano a guardare in faccia l’orrore del secolo appena passato (credo che i successori abbiano continuato a farlo, ma non so perché immagino che non sia stata, poi, la stessa cosa). Trattavano quel vecchio signore senza soggezione. Specialmente le ragazze. Qualcuna lo prendeva sottobraccio e lui si prestava, divertito.
La stessa scena, con qualche variazione, l’ho vista ripetersi quattro o cinque volte negli anni e quattro o cinque volte ho pensato la stessa cosa. Quest’uomo sta per rivedere i luoghi dove era stato destinato a morire. Dove sono morti e dispersi nel fumo delle ciminiere dei forni crematori tutti i suoi familiari: i genitori, la sorella Anna, i fratelli Cesare e Leo, lo zio Amedeo, il nonno Leone David. Dove ha vissuto per centinaia di giorni il freddo, la fame, la paura, la crudeltà dei guardiani, con l’anima gravata dal peso di un’ingiustizia inconcepibile. Perché è così sereno? Che forza ha, dentro, che lo spinge a ricordare? E poi a parlare a questi ragazzi che gli sorridono? A raccontare?
La stessa domanda ce la siamo posta tutti, credo, anche a proposito degli altri sopravvissuti: Primo Levi, Liliana Segre, Shlomo Venezia, Settimia Spizzichino, Nedo Fiano, Sami Modiano, le sorelle Andra e Tatiana Bucci… E infatti, lo sappiamo, alcuni, per molti anni, non hanno parlato. Si sono arresi a quella che i filosofi hanno chiamato l’indicibilità di Auschwitz e poi la decisione di rompere quel silenzio è stata come la vittoria del dovere sul dolore. Il dovere della testimonianza sul diritto sacrosanto all’intimità della propria vicenda umana.
Come fa? La risposta, in quei giorni dei viaggi con i ragazzi, arrivava dalla voce di Piero. Quando cominciava la sua storia. La cacciata dalla scuola, a dieci anni, per le leggi razziali. Lo scoppio della guerra, l’arrivo dei tedeschi a Roma, il rastrellamento del ghetto, appena al di là del fiume dalla piazza di Trastevere dove i Terracina avevano trovato casa. Poi i mesi passati in cantina e le sortite, sempre più pericolose, con i fratelli per rimediare qualcosa da mangiare. L’arresto di tutta la famiglia, tradita da un delatore, la deportazione a Fossoli, il campo di prigionia in Emilia (perché non solo i tedeschi, ma anche gli italiani internavano gli ebrei), il viaggio sul vagone blindato, dove non si mangiava, non si beveva e si cominciava a morire. La selezione sulla rampa degli ebrei all’arrivo a Birkenau. Di qua si vive, di là si muore. Sedici anni erano abbastanza per non essere mandato subito alla camera a gas, per essere messo al lavoro, per diventare un ingranaggio di quella mostruosa macchina della morte.
La separazione
Lo vedevo commuoversi, il vecchio, quando ricostruiva come era stato separato dai genitori e di fratelli. La voce per un attimo tremava, ma poi il racconto riprendeva, filava liscio. Con i ragazzi seduti a terra o appoggiati a una parete, una volta sullo spiazzo sul quale allora erano sorte le camere a gas, un’altra volta davanti al muro dove, nel campo principale, venivano fucilati i prigionieri prima che entrassero in funzione le camere a gas, una volta – mi pare – davanti al locale dove – raccontava Marcello Pezzetti, lo storico che ha dedicato la vita a ricostruire la storia del campo – le SS avevano sperimentato per la prima volta il Zyklon B su un gruppo di prigionieri russi. I giovani non fiatavano. Solo qualcuno faceva qua e là una domanda. Alcuni avevano le lacrime agli occhi, ma non c’era alcun sentimentalismo nell’aria: era un’operazione lucida di ricostruzione di agghiaccianti fatti accaduti.
Sul pullman, al ritorno verso Cracovia, la vita pian piano riprendeva, gli studenti tornavano ragazzi. E lui, Piero, tornava qual signore amabile che era, con quella faccia pronta al sorriso da vecchio zio con il quale si cerca confidenza.
Così ricordo Piero Terracina.
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