Così si è dissolta
la sinistra italiana

Non serve, soprattutto come autoassoluzione, dire che l’italiano è congenitamente attratto dal deteriore populismo. In Svezia ed Austria (nonostante economie molto più vitali) il nazionalpopulismo oltrepassa la Lega come voti e messaggi, trascinando il vecchio “centro”, Övp e Moderaterna, ormai non sempre distinguibile dalla nuova destra. Per cinquant’anni il populismo da noi non ha avuto chances, mentre negli anni 1970 in Danimarca e Norvegia esplodeva e con “elezioni sismiche” causava prolungate instabilità.

Le particolarità italiane sono altre: da noi la protesta si è abbattuta su una democrazia in cui nulla delle tradizionali identità e forze politiche era rimasto. Non è così nell’Europa Occidentale. È questo l’ambito in cui va collocato l’altro aspetto pressoché unico: del Pci e del Psi non rimane nulla di rilevante o riconoscibile. Altrove esiste ancora la Socialdemocrazia, sebbene spesso in arretramento: anche laddove accusa un lungo declino, come in Germania, organizza referendum interni sulla linea politica in cui decidono davvero centinaia di migliaia di militanti, nulla di paragonabile alla partecipazione dubbia ed effimera delle primarie (non solo quelle di Renzi). Altrove, poi, la vitalità del socialismo europeo recupera fortemente, come in Uk con Corbyn, o in Portogallo. In ambo i casi crescono progetti e coalizioni che includono l’intera sinistra, la quale peraltro conferma l’identità socialista, nonché il proprio insediamento nel lavoro: senza inibizione. Laddove poi la socialdemocrazia collassa (Grecia, Paesi Bassi, Francia) altre forze del socialismo ne prendono il posto in modo rilevante, limitando il travaso verso la protesta: Syriza (nonostante tutto) rimarrà una forza principale; il Partito Socialista Olandese mantiene almeno il 10% (con l’aggiunta della sinistra rosso-verde, anche più grande); in Francia c’è un forte Melenchon.

Ciò che invece sconvolge da noi è la nulla capacità di LeU e Pap di recuperare voti dal dimezzamento del PD, dalla sua disfatta referendaria, nonché di raccogliere un voto di protesta che pure, rispetto a quanto avviene nell’Europa centrale e nordica, non emigra decisamente a destra ma passa al M5S. L’eredità del comunismo e del socialismo italiano è in condizione di minorità totale: ciò ha motivazioni storiche. Il Pci, con la grande maggioranza del radicamento, lo ha gestito mediante quella che Luciano Cafagna chiamava “strategia dell’obesità”: accrescere il proprio peso elettorale ed organizzativo facendolo contare, pur con responsabilità e fruttuosità, specie nelle fasi costituzionali o di delicata stabilizzazione. Ma per motivi storici (sono stati i partiti, per esempio, a rifondare sindacati e istituzioni repubblicane) il partito aveva la primazia sul proprio movimento/radicamento. Viceversa, nel socialismo europeo, fra i due soggetti vige (ancora) una maggiore parità, specie con l’ala sindacale. La conseguenza è che in paesi a forte socialdemocrazia il radicamento sociale ha imposto, meglio che in Italia, anche una più avanzata parità fra capitale e lavoro. La forza del lavoro è dunque più “strutturale”, più saldata nella storia economico-sociale, nel modo di lavorare (cioè di vivere) di grandi masse: il livello non partitico del radicamento della sinistra vi ha (ancora oggi) una forza maggiore e più paritaria. I cedimenti neoliberali degli ultimi 20 anni la stanno chiaramente erodendo, ma la sinistra non si dissolve nella manovra puramente coalizionale-elettorale come nel nostro caso.

Anche il Psi rimase estraneo allo schema della “doppia parità” del socialismo europeo. Il primato del partito è stato assai meno dottrinario e disciplinante, ma anche nelle fasi di maggiore successo (1962-64 e 1968-70) necessariamente la sua strategia di trasformazione è dipesa più dalla risorsa coalizionale (manovra politica) che dalla forza paritaria del movimento. Per esempio, il Psi concepì la regolazione e la riforma dell’economia (abbondantemente fino a Craxi) mediante l’industria pubblica, la quale, pur svolgendo un ruolo che oggi servirebbe, a sua volta era risorsa ampiamente interna al livello politico-coalizionale. Anche perché industria pubblica e partiti si rafforzavano a vicenda: formalmente e informalmente. Scomparso ciò, nulla è rimasto: altrimenti non sarebbe bastata Tangentopoli a far scomparire il Psi, 25 anni fa, da ogni degna esistenza politica.

In sintesi, al momento della svolta “neoliberale” (fra anni 1980 e 1990) sono accadute due cose: 1) il radicamento è stato con più fretta che altrove messo a disposizione di manovre e patti in cui il personale partitico usava il proprio “popolo” (prima che si dissolvesse!) per legittimare un ingresso nella nuova stanza dei bottoni neoliberale; 2) essendo meno radicato in una parità lungamente costruita (nei confronti del livello partitico e del capitalismo) il nostro compromesso fra capitale e lavoro è arretrato più fragorosamente che altrove. Berlusconi è servito a prolungare artatamente il nesso sinistra-popolo, e tutti i settori della sinistra hanno speso la risorsa organizzativa ed elettorale accumulata nella ricerca di spazio partitico-elettorale e comunicativo anziché in modo paritario, verso la politica e verso il mondo dell’impresa. Ciò ha interagito con una minore compenetrazione fra economia e forza del lavoro, il che a sua volta ha causato il resto del degrado. Le primarie all’italiana, in fondo, non sono che questo: una massa di consenso perlopiù accumulata da decenni che delega tutto al politico (oggi più una personalità che un partito) e si dissolve subito dopo. Alla fine l’invito alla dissoluzione è stato preso in parola.