Gli errori della Regione
dietro il crollo
della sanità lombarda

L’eccellenza lombarda sta generando morti e feriti. Il sistema sanitario governato ai piani alti dei grattacieli formigoniani, presuntuosa sede della Regione del Celeste, anima pia nonché reggitore di Comunione e Liberazione, dei suoi successori, i leghisti Maroni e Fontana, sta mostrando crepe vistose senza possibilità di esami di riparazione: i danni si son fatti e nessuno potrà mai cancellare l’immagine dei camion militari che lasciano Bergamo carichi di bare, una colonna, questa sì, degna di un fronte di guerra.

Gli storici saranno al lavoro, i romanzieri avranno già scritto le loro pagine di memorie (pare che un romanzo sia già pronto e annunciato, autore tale Paolo Giordano: neppure il rispetto per il lutto di tanti). Qualcuno ci presenterà la verità dei fatti? O almeno, qualcuno ci lascerà avvicinare alla verità dei fatti?

L’ignavia di fronte al virus

La spiegazione dell’avvio di tanto contagio nella regione più florida d’Italia, il ponte naturale verso l’Europa del Nord e il resto del mondo, è facile: qui si concentrano il lavoro, i commerci, le relazioni internazionali, i traffici, le mostre, la ricchezza insomma, e si concentra la gente, quella che arriva dalle altre regioni italiane, quella in transito da tutti i luoghi del globo (una delle quote più ampie del turismo milanese è rappresentata dai cinesi). Facile che il paziente 0 sul territorio nazionale risieda o soggiorni per qualche tempo a Milano. Ma lo stesso privilegio sarebbe potuto toccare a Firenze, a Roma, a Venezia, altre città dai flussi smisurati di turismo. Invece il paziente 0 è stato rintracciato a Codogno, grosso centro agricolo a pochi chilometri dal confine con l’Emilia e con la provincia di Piacenza. Ma il giovane di Codogno, scampato alla sorte peggiore, è un paziente 0 più presunto che reale. Qualsiasi medico di base, tra quelli in prima linea, costretti a intrattenere rapporti ogni giorno con la sofferenza di giovani e anziani (soprattutto anziani, per svariate e immaginabili ragioni i più assidui frequentatori degli studi medici) vi dirà di aver accertato polmoniti anomale, pesanti e durature, ben prima di Codogno. Il virus si stava attrezzando per l’assalto decisivo. Naturale che così fosse, se la prima vittima a Wuhan si conta il 9 gennaio, il primo contagiato non si sa, probabilmente cinque giorni dopo, la moglie, che manifesta sintomi simili. Quindi il virus ha già iniziato le sue peregrinazioni. Il 22 gennaio Xi Jinping impone la chiusura totale a Wuhan. Insomma i cinesi, con qualche ritardo anche loro (pesante ritardo: tredici giorni), ci mettono sul chi va là. Passa un mese e il presunto paziente 0 di Codogno apre la strada in Italia. Codogno diventa zona rossa (dalla quale non si rinuncia a fuggire percorrendo strade di campagna, con il SUV, strade che nessun esercito potrebbe controllare).

Passa un giorno e il 23 febbraio due casi di coronavirus vengono scoperti all’ospedale di Alzano Lombardo, provincia di Bergamo. Succede che l’ospedale venga chiuso per timore del contagio per essere riaperto due giorni dopo. Medici e infermieri contagiati. Ma non succede nulla.

Il 2 marzo una nota dell’Istituto Superiore della Sanità segnala l’insorgere tra Alzano e Nembro, comune a pochi passi più a nord, di vari casi di coronavirus. Di nuovo non succede nulla. D’altra parte, ci si chiede, come si fa a decretare per pochi casi, il lockdown per una zona di venticinquemila abitanti, 376 aziende, settecento milioni all’anno di fatturato (Codogno: cinquantamila abitanti, tremila aziende). Niente, silenzio. Invece il 7 marzo accade che le strade di Bergamo siano invase da una folla festante e le piste di sci pullulino di sciatori felici al sole, neve stupenda (come in tutte le stazioni sciistiche: tanta folla non si era mai vista per tutto l’inverno). Milano prende coraggio dopo il messaggio del sindaco: “Milano non si ferma”. Sala non se ne pentirà mai abbastanza. Ma il virus non cede di un passo.

L’8 marzo infine tutta la Lombardia (e non solo la Lombardia) diventa zona rossa. Dopo diventa la rincorsa alle mascherine, ai posti di terapia intensiva, ai letti, alle tende per il triage, diventa il calcolo dei decessi e la somma dei contagiati, diventa pure la polemica tra un organo di governo e l’altro, tra la Protezione Civile e un assessorato regionale, tra un sindaco e un Presidente Regionale. Il gioco è quello di sempre: occultare responsabilità e colpe. L’altro giorno i medici lombardi (per l’esattezza la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Lombardia) in un comunicato hanno riassunto quelle della Regione, riconoscendo però un “ottimo intervento sul fronte delle terapie intensive o semiintensive”. Denunciavano i medici lombardi: mancanza di dati sull’esatta diffusione dell’epidemia, incertezza nella chiusura di alcune aree a rischio, gestione confusa nelle residenze per anziani, mancata fornitura di protezioni individuali, pressoché totale assenza delle attività di igiene pubblica, niente programmazione sul territorio e quindi rapida saturazione dei posti letto ospedalieri…

Le responsabilità della Regione

Il risultato può rappresentarlo una statistica internazionale: nel mondo i sopravvissuti finora al contagio rappresentano il 97% dei contagiati, in Corea e in Germania il 99%, in Italia l’88, in Piemonte il 90, in Emilia 88,5, in Lombardia il 77%. Nella zona di Bergamo, le ambulanze, a strade semivuote, hanno cessato di usare le sirene: troppo inquietante quel suono, una specie di campana a morto. Per rimediare, il Presidente della Regione, Fontana, colui che avrebbe potuto decidere la zona rossa, ordina ai lombardi di usare la mascherina: ha tenuto conto che le mascherine mancano (anche se ormai una infinità di aziende delle confezioni si sono convertite alla loro produzione), in alternativa ha consigliato foulard di seta.

Intanto l’assessore alla sanità Gallera ogni giorno si presenta ad una conferenza stampa senza interlocutori e senza contradditori, conferenza stampa ripresa con indubbia compiacenza da La7, RaiNews24, Sky, in cui, accompagnato solo da qualche funzionario, elenca numeri su numeri, numeri poco attendibili perché la platea reale nessuno la conosce. Come contare i deceduti in casa, quelli negli ospizi, i ricoverati nelle cliniche private. È tutto assai complicato, anche per il povero Gallera, il quale però non rinuncia alla candidatura a futuro sindaco di Milano: non mi tirerei indietro, spiega con scandalosa tempestività, cominciando la sua campagna elettorale via etere e in virtù del coronavirus. Del resto, ascoltando Gallera e il suo presidente Fontana (come ascoltando Salvini e la Meloni), come si fa a negare l’esercizio di una banale campagna elettorale, senza scandalo tra quanti (i giornalisti in prima fila) l’ascoltano. Senza peraltro che alcuno, tranne rare eccezioni, abbia la voglia di rinfacciare a questi personaggi il disastro alle loro spalle, il disastro combinato dai loro stessi partiti, dalle loro maggioranze, dai loro alleati, con molte complicità, evidentemente. Le destre in prima fila ma anche parti del centrosinistra hanno per lungo tempo provato a convincerci che l’autonomia regionalizzata in ambito sanitario ci avrebbe garantito servizi di maggior qualità, mentre l’epidemia che stiamo soffrendo è qui a dimostrarci quanto sarebbe necessaria una regia nazionale. La sanità privata, che in Lombardia ormai presidia il territorio della salute, di fronte all’emergenza s’è tirata in disparte e l’eccellenza cantata dai suoi fautori s’è rivelata buona solo per gli incassi, cioè per quegli interventi che fanno guadagnare e aiutano a prosperare: una tac o una radiografia pagano di più di qualsiasi coronavirus. I privati si dedicano alle malattie che generano profitti. I medici di base sono diventati inutili, era questa la tesi sostenuta l’estate scorsa da un sottosegretario leghista del primo governo Conte, ma i medici di base si sono rivelati la prima barriera, il primo filtro contro la diffusione del virus.

La sanità degli ospedali e delle cliniche è diventata un’impresa florida ‒ quella lombarda vale 18 miliardi, cioè il 70 per cento del bilancio regionale. Diciotto miliardi da spartirsi: le strutture private convenzionate possono attingere. Una visita di struttura in struttura sarebbe indicativa: non esistono solo le cosiddette eccellenze, prospera anche una miriade di piccole aziende, di discutibile qualità, una ragnatela cresciuta all’insegna del business garantito. Ma diciotto miliardi sono anche il formidabile strumento della politica e la sanità un campo altrettanto formidabile d’esercitazione. Attraverso la sanità si costruiscono clientele, che significano potere e voti. Nel “pubblico” Comunione e Liberazione, prima, e la Lega, poi, si sono scontrate per anni nella spartizione dei primariati: ora quelli di CL sono ormai residuali… Non sarà un caso che la tangentopoli milanese abbia inaugurato la sua stagione al Pio Albergo Trivulzio, l’antica Baggina, cioè il polo geriatrico più importante d’Italia (ed ora al centro di un nuovo scontro, per via dei decessi registrati nelle sue stanze). La stagione della corruzione e delle tangenti non si fermò allora e continua. La condanna di Formigoni ce lo ricorda. Nomi di cliniche come S.Rita e Maugeri evocano tristissime storie. In compenso mai si è pensato a un piano regionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale, come il governo aveva indicato dopo l’aviaria del 2003.
Così la Lombardia, a ottomila chilometri da Wuhan, è diventata il primo focolaio d’Europa.