Impatto coronavirus:
le ipotesi per uscire dall’impasse europea

C’è un primo, ancor vago, schema d’accordo in vista della riunione dell’Eurogruppo di martedì prossimo. I ministri dell’Economia e delle Finanze dei paesi dell’area dell’euro, come si sa, dovranno superare l’impasse drammatica registrata nell’ultimo incontro collettivo, il 26 marzo scorso, su modi, tempi e quantità di denaro necessari per finanziare la ricostruzione europea del dopo-pandemia.

Lo schema sarebbe stato elaborato dai ministri tedesco, Olaf Scholz, e francese, Bruno Le Maire. Prima che qualcuno salti su a denunciare la rinascita di un asse Parigi-Berlino e una riedizione dell’Europa carolingia fatta apposta per tagliar fuori l’Italia (e la Spagna), sarà bene cercare di capire se e come le soluzioni proposte intanto siano utili a trovare l’immane marea di soldi che saranno necessari di qui ai prossimi mesi e poi a cercar di vedere se esse serviranno davvero a superare l’impasse e a mettere d’accordo i 19 paesi dell’Eurogruppo nonché, poi, tutti e 27 i paesi dell’Unione.

Schema di compromesso

La rottura del 26 marzo è avvenuta per lo scontro tra i 9 paesi che chiedevano l’adozione dei cosiddetti Coronabond (cui si sono aggiunti poi le tre repubbliche baltiche, Malta e Cipro) e un “fronte del nord” (Germania, Paesi Bassi, Finlandia e Austria) i cui esponenti sostenevano che a far fronte all’emergenza dovesse essere il Mes, ovvero il fondo salvastati creato nel 2012 per intervenire a sostegno dei paesi che dovessero cadere in una crisi finanziaria sistemica.

Lo schema di compromesso, per quel che se ne sa, cercherebbe di salvare capra e cavoli, superando le obiezioni di ciascuna delle parti alla proposta sostenuta dall’altra. Semplificando molto, e un po’ indebitamente, il progetto unirebbe le due ipotesi togliendo all’una e all’altra le caratteristiche reciprocamente inaccettabili.

Vediamo come. Per finanziare la ricostruzione verrebbero impiegati, intanto, i circa 400 miliardi del MES. Si tratta dei contributi già versati, in modo proporzionale, dagli stati membri, i quali hanno sottoscritto (cioè si sono impegnati a versare nel caso che il MES dovesse entrare in funzione) somme ben più consistenti. L’Italia, ad esempio, 125 miliardi contro i circa 14 che ha già messo nel fondo. Questi soldi si aggiungerebbero agli 870 miliardi già messi in circolo dalla BCE e ai 100 del programma SURE della Commissione per finanziare una cassa integrazione europea e farebbero da volano a investimenti ben più consistenti della Banca Europea degli Investimenti.

Mes senza condizioni?

commissione europeaMa non è quello che reclamavano proprio i paesi “rigoristi”? No, perché l’intervento del MES (che a questo punto converrebbe pure chiamare in un altro modo) verrebbe sterilizzato nei due aspetti che lo rendevano indigeribile ai fautori dei bond europei: verrebbe eliminata la clausola per cui al momento dell’intervento tutte le somme sottoscritte dovrebbero essere versate effettivamente, per cui si eviterebbe l’assurdità per cui chi ottiene gli aiuti deve affrontare fortissime uscite, e, soprattutto, l’intervento del MES sarebbe incondizionato, non verrebbero poste cioè condizioni ai paesi che ricevono gli aiuti. Non solo quelle draconiane in materia di disciplina di bilancio tristissimamente simboleggiata dalla troika ma neppure le imposizioni o le richieste pressanti di riforme economiche, tagli alle spese sociali, modificazioni del mercato del lavoro e via elencando i pacchetti che imperversarono nelle stagioni dell’austerity. È bene sempre ricordare, a questo proposito, che proprio i tagli imposti a suo tempo al sistema del welfare dalle imposizioni di Bruxelles hanno determinato, non solo in Italia, le gigantesche difficoltà con cui i sistemi sanitari si stanno confrontando nella contingenza attuale. Sarebbe un argomento che i rappresentanti del nostro governo dovrebbero sottolineare con forza nella trattativa che si aprirà. Magari condendolo con una seria autocritica.

Un uso del MES, magari cambiato di nome ma soprattutto incondizionato sarebbe accettabile come soluzione da parte dell’Italia e della Spagna? La risposta è molto dubbia perché, almeno per quanto riguarda il nostro paese, il concetto stesso ha acquisito un carattere politicamente negativo. Inoltre bisogna aggiungere che I soldi messi a disposizione – in tutto, sommando MES, BCE e programma SURE si arriverebbe a circa 1300 miliardi –  non sarebbero probabilmente sufficienti alle immani necessità che si presenteranno.

“Il Mes senza condizioni può essere uno strumento utile, ma solo uno tra molti“, ha affermato il commissario all’Economia Paolo Gentiloni in una intervista alla tedesca Welt, ammorbidendo alquanto i rigidi “non possumus” ribaditi nelle ore precedenti da Giuseppe Conte e dal ministro italiano Roberto Gualtieri. Poiché c’è da pensare che l’italiano di Bruxelles e quelli di Roma si parlino, l’uscita di Gentiloni potrebbe essere considerata un’apertura. Resta il problema, però, di come ottenere garanzie certe sul fatto che, passata l’emergenza nella quale quei soldi verrebbero utilizzati da tutti, formichine rigorose e cicale scialacquone, più o meno per gli stessi scopi non si creerebbero tensioni al momento della restituzione o del pagamento delle obbligazioni. È certamente uno scenario possibile, che comunque è destinato a fare da sfondo all’insieme dei rapporti nell’Unione europea in ogni caso, epidemia o no, finché alla guida dei maggiori paesi resteranno dominanti gli orientamenti neoliberisti.

Parigi in campo

È difficile, dunque, che questa idea passi all’Eurogruppo, almeno da sola. L’Italia, e probabilmente anche la Spagna e forse anche altri, avrebbero più di una ragione per mantenere il proprio no. Ecco perché i francesi avrebbero convinto i tedeschi (sempre stando alle indiscrezioni che circolano) ad accettare l’idea che alla messa in campo del MES si accompagni una emissione di obbligazioni comuni. Non si tratterebbe però dei cosiddetti Coronabond indigeribili a nord del Brennero e ad est del Reno perché essi non verrebbero garantiti direttamente dagli stati, configurando così l’aborrita comunitarizzazione del debito, ma verrebbero emessi da un organismo creato ad hoc che verrebbe chiamato Fondo Speciale per la Ripartenza e che, per come lo ha spiegato ieri il presidente dell’Eurogruppo Mário Centeno, sarebbe “un fondo temporaneo complementare al bilancio Ue che emetterebbe titoli grazie alle garanzie dei governi”.

E perché i paesi del fronte anti-coronabond dovrebbero accettare, con un altro nome, quello che hanno rifiutato fino ad adesso e che il 26 ha portato alla clamorosa rottura? Perché anch’essi riceverebbero garanzie sul fatto che non si sta cercando di far passare, con la scusa dell’epidemia, un principio per loro inaccettabile.

I bond per la Ripartenza verrebbero venduti, infatti, solo per lo scopo preciso e unico di interventi comuni decisi dalle istituzioni europee e destinati a misure di sostegno sociale ed economico e solo a quelle. Sarebbero un po’, per intenderci, come gli attuali Fondi europei (dei quali pure si sta facilitando l’impiego togliendo l’obbligo del cofinanziamento): in nessun modo prefigurerebbero forme di mutualizzazione europea del debito dei diversi paesi.

“Il messaggio che mandiamo ai paesi del Nord – ha detto ancora Gentiloni alla Welt – è che non stiamo parlando della condivisione del debito”. Il problema esiste, e anche l’esigenza, aggiungiamo noi, ma, spiega Gentiloni, “non è questo il momento. Ora è il momento di parlare di debiti condivisi per combattere contro il Coronavirus e le sue conseguenze”.

Quante possibilità ha questa impostazione di rappresentare un compromesso possibile alla riunione di martedì che, senza retorica, rappresenta un drammatico momento della verità per la tenuta stessa dell’Unione europea? Almeno quante ne ha la soluzione individuata per l’utilizzo del MES. Gli ultimi sviluppi del dibattito politico in Germania mostrano che l’opposizione alle obbligazioni europee non è poi così tetragona. Ai Verdi, che sono favorevoli fin dall’inizio ai Coronabond e sono ormai il secondo partito tedesco in fatto di consensi, si sono aggiunti vari esponenti socialdemocratici e persino qualche rappresentante cristiano-democratico, oltre che larga parte dell’establishment scientifico-economico e molti commentatori autorevoli, tra gli altri il direttore dello Spiegel Steffen Klusmann. Persino dal durissimo ministro delle Finanze olandese Wopke Hoekstra è venuto, nelle ultime ore, un cenno di autocritica.  Staremo a vedere.