Confessioni amare di un poeta dal fronte dell’alluvione
Dopo una prima fase nella quale miracolosamente ero stato lambito ma non colpito, ho infine vissuto sulla mia pelle in questi giorni le devastazioni che hanno coinvolto l’Emilia Romagna. Quello che è accaduto non ha modificato, ma se possibile rafforzato, alcune mie convinzioni che vorrei analizzare, soprattutto per i tempi a venire.
La percezione del reale e il rapporto col virtuale: premettendo che non mi è stato possibile per buona parte del tempo seguire i mezzi di comunicazione, mentre l’acqua saliva e allagava con forza ogni nostra strada ed edificio, il grado di separazione tra chi era coinvolto nella vicenda e il resto del mondo, magari culturale, che si riversava smanioso all’interno del Salone del Libro a Torino, lamentandosi del clima non idilliaco o dei prezzi dei panini a 6/8 euro, dava un’ esatta idea di come esista e sia drammaticamente tangibile un mondo nel quale l’arte e la letteratura assumono un ruolo di occasione e non di sintesi, un evento appunto e non un’ opportunità di crescita e di miglioramento. Pochi sono stati gli autori che hanno deciso di non arrivare a Torino e dedicarsi al soccorso dei luoghi più facili, magari anche per un’ impossibilità logistica (raggiungere il Piemonte con qualsiasi mezzo nello scorso fine settimana dal Ravennate era pressoché impossibile, strade allagate, autostrade bloccate e linea ferroviaria impossibile da ripristinare).
Una “pioggia” di poesie
A un certo punto sono iniziate a piovere (termine non usato a caso) da ogni parte poesie dedicate all’evento, testi d’occasione direbbe Montale, solo che l’occasione piacevole e il rapido confine della retorica non si è fatto attendere. Il pragmatismo tipico dei romagnoli si è visto anche nella non idilliaca accoglienza destinata ad alcuni avventurosi giornalisti che, invece di limitarsi al loro mestiere e documentare la cronaca, hanno avuto la brillante idea di chiedere lo stato d’animo a chi magari ha perso la propria unica casa, tirata su con fatica in decenni e decenni di sacrifici. Ovviamente è successo quello che era giusto succedesse.
Mi è capitato nel fine settimana di sentirmi fare un discorso del tipo “tu di solito usi la testa ma oggi abbiamo bisogno delle tue braccia” e così ho trasportato boiler, cassapanche in vero legno e altre cose decisamente pesanti dagli scantinati di miei vicini decisamente più sfortunati. Ecco quindi, a cosa serve la poesia in un momento come questo? A un bel niente. La poesia (gramscianamente) serve prima per provare a convincere larghe fette della popolazione della necessità di opere ambientali per la sicurezza del territorio e delle nostre vite e poi per porre un punto sulla memoria di quanto accaduto, nel corretto senso della storia dove le storture vengono ricordate proprio per evitare che siano ripercorsi gli stessi errori. Nel mezzo, ancora una volta, è puro edonismo.
La solidarietà dei giovani e degli anziani
All’estremo opposto stanno gli “angeli della paciara”, termine che necessariamente va tradotto e che non va inteso solo come fango ma che rende bene l’idea di qualcosa di limaccioso e appiccicoso che si attacca a stivali, vestiti, pale e ancora mobili, libri, ricordi… Questi angeli sono la stragrande parte della popolazione adolescente e ventenne della zona che armata di scope, vanghe e braccia più o meno forti si è messa a disposizione di chiunque in questi giorni avesse necessità. Ora, anche da questo punto di vista gli episodi simpatici non mancano, dal bicchiere di vino o il piatto di pasta offerto a chiunque passasse (la generosità e la condivisione qui non si discute) fino al caso limite del condominio che, trovatosi coi freezer senza elettricità, piuttosto che buttare la carne che si stava oramai scongelando ha deciso di proporre al quartiere un’enorme grigliata.
Ma al di là degli episodi quello che è cambiato in questi giorni è oltre all’identità civile, che anche in un recente passato si è attivata, la prospettiva sociale. E’ servita insomma una catastrofe per farci rinsavire da un altro disastro certamente complicato dagli anni del Covid, l’incapacità di parlarsi, di aiutarsi, di guardarci in faccia anche solo tra dirimpettai, chiederci se va tutto bene, aiutarci senza particolari timori. Una idea di comunità sociale diffusa di cui forse anche in ambito culturale dovremmo con forza iniziare a parlare per raccontare nuovi tempi e immaginare nuove possibilità.

I danni a teatri, biblioteche, aziende
Eppure la cultura non esce bene da questa alluvione, e intendo nella pratica: perché oltre alle case, alle auto, agli oggetti a farne le spese sono anche i luoghi della cultura in una zona d’Italia che da sempre destina moltissimo impegno e moltissime energie in questa direzione: il teatro Rossini di Lugo è stato fortemente danneggiato, stessa cosa è accaduta alle biblioteche. Molti hanno visto le immagini della biblioteca Manfrediana di Faenza con i propri libri totalmente ricoperti dal fango, anche se dalla biblioteca stessa si sono affrettati a sottolineare che si tratta di titoli nuovi facilmente recuperabili. Ma un conto è una biblioteca con discreta disponibilità economica, un conto è quella di un comune da poche migliaia di abitanti come Sant’Agata sul Santerno, dove lo stesso fiume ha rotto gli argini proprio dalla parte del centro del paese radendolo in buona parte al suolo. Qui la cultura, in un piccolo centro, non è un lusso ma l’unica possibilità di crescita e riscatto, qui si pone a un ruolo infinitamente più grande che va recuperato quanto prima.
E infine le aziende: potremmo parlare ad esempio di librerie, la storica Alfabeta ancora di Lugo, che qui dirige nel corso dell’anno le maggiori e prestigiose manifestazioni letterarie, la libreria Coop di Cesena e molte delle librerie della stessa catena di ipermercati che comunque ha reso possibile un servizio capillare di diffusione del libro. E infine le case editrici. Come dimenticare la storica Il Ponte Vecchio che da oltre 30 anni ha portato avanti non solo la storia locale ma tanta cultura che da queste parti si è sviluppata? Anche alla famiglia Casalini va un doveroso pensiero e un augurio prossimo alla certezza che tutto riprenderà, perché da queste parti certamente non manca il coraggio ma anche l’abnegazione a riprendere in mano le cose.
Simoncelli allo Strega Poesia
Infine una piccola vicenda, dato che qui si parla comunque di poesia: tra i cinque finalisti del Premio Strega Poesia, che proprio negli ultimi giorni al Salone del Libro sono stati proclamati, tra le gloriose case editrici, l’unica nota dissonante è stata la presenza nella cinquina di “Sotto falso nome” edito da peQuod, del romagnolo di Cesenatico Stefano Simoncelli.
Ora non si può discutere il valore poetico di Simoncelli, anzi probabilmente si potrebbe discutere il motivo per cui questo autore che riceve la stima di tutto il mondo letterario italiano (contrariamente ad altri su cui qualche appunto è stato fatto) si trova comunque ancora in una sorta di limbo anche a livello antologico. In fondo chi di noi non ha tifato per le imprese impossibili? Chi almeno una volta non ha parteggiato per il Chievo, piccolo quartiere di Verona quando solo pochi anni fa lottava nel Campionato di Calcio alla pari con ricchissime e blasonate armate, chi non ha tifato per la contrada del Bruco, la più piccola di Siena, che per molti decenni non sembrava in grado di vincere il Palio?
Una proposta aspettando che l’acqua si ritiri
“Sotto falso nome” di Stefano Simoncelli è un libro ottimo che non ha nulla di meno rispetto agli altri libri finalisti e non ha certamente minor autorevolezza.
Che non sia proprio un segnale forte come quello di far vincere la prima edizione del Premio Strega Poesia a un ottimo libro che racchiude in sé anche la fierezza, la dignità e l’indipendenza di chi in Romagna si ostina a fare cultura per la propria terra, per i propri abitanti e proprio come faceva il giovane Simoncelli assieme a Ferruccio Benzoni e Walter Valeri con la rivista Sul porto.
Ecco la proposta è fatta: ora bisogna solo attendere che l’acqua si ritiri e che le giurie decidano.
Questa notte fissavo come in trance
una cornetta antidiluviana senza filo,
forse strappata da una di quelle cabine
claustrofobiche con la puzza di sigarette
e l’elenco a pezzi che non si trovano più
lungo i confini spaventati delle piazze.
Era lì, in attesa, tra i fogli sparsi e matite
sul comodino nella mia parte del letto.
Nella tua nessuno, il vuoto assoluto
e il gelo perfino adesso che è luglio.
Dopo qualche attimo di esitazione
l’ho impugnata con delicatezza
e ripetuto là dentro il tuo nome,
forse l’ho addirittura gridato,
ma è arrivato solo silenzio.
<< Non c’è linea >> mi sono detto
e ho riattaccato, ma a notte fonda
la cornetta ha cominciato a vibrare
buttando all’aria i fogli, le matite
e ho risposto << Ciao >> ho sentito
tra sibili remoti e interferenze
<< Qui sto benissimo e ti aspetto >>.
Cesenatico, 23 Luglio 2021.
Stefano Simoncelli, Sotto falso nome, peQuod 2022
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