Come la sinistra può ricostruire la filigrana della comunità
Chiunque svolga una funzione pubblica conosce da vicino l’effetto “forno”. Ossia il timore di giungere ad un appuntamento e trovare la piazza, o la stanza, desolatamente vuota. Nel 1982 Austin Mitchell racconta di un deputato britannico della fine degli anni Settanta che non riesce più a fare una campagna elettorale efficace nelle piazze del suo collegio perché i suoi elettori potenziali sono troppo occupati a seguire la campagna dei suoi avversari in televisione. Forse quella descritta da Mitchell era una situazione limite, ma riassume un cambiamento che ha segnato gli ultimi decenni, la “mediatizzazione” della politica, con il moltiplicarsi delle arene di confronto politico e la crescita di importanza della televisione (e, successivamente, dei social media).
Cosa dobbiamo ricavare dalle disavventure del deputato britannico? Che bisogna abbandonare le forme tradizionali di comunicazione? Sicuramente no. Molte delle neo-formazioni politiche recentemente affermatesi in svariati paesi hanno sottratto voti ai partiti tradizionali proprio riproponendo forme di mobilitazione che si credevano tramontate. E anche in partiti più attempati si è tornati a percorrere antichi sentieri. Per rimanere all’esempio inglese, questa è la strada seguita, almeno in parte, da Jeremy Corbyn. Tuttavia, i processi di mediatizzazione ci ricordano che separare comunicazione e politica è impossibile e che la politica è influenzata dalle trasformazioni tecnologiche concernenti la comunicazione. I processi di personalizzazione della politica nascono anche da tali dinamiche e con queste si deve convivere.
Sovente, quando si parla di personalizzazione, ci si sofferma solo sul leader, sulla sua fenomenologia. In realtà, le preferenze politiche verso una persona, sono sempre favorite da motivazioni espressive e da passioni condivise. Un esempio? Luca Zaia è il Presidente di Regione più popolare in Italia secondo i sondaggi; alle ultime elezioni regionali del 2015 la sua lista personale risulta la più votata in Veneto, con il 23,1%, rispetto alla stessa Lega che ottiene il 17,8%. Zaia non ottiene questi risultati solo perché investe risorse e molta attenzione nell’utilizzo accorto dei media, bensì perché riesce ad interpretare gli orientamenti prevalenti nella cultura politica diffusa della sua comunità di riferimento. Nella fattispecie, Zaia riesce a rappresentare quel localismo antistatalista sedimentato nell’Italia nordorientale sin dai tempi della Serenissima, ereditato dall’Italia unita e sapientemente incapsulato per decenni dalla Dc. Così facendo rappresenta un’articolazione interna nella stessa Lega nell’era della nazionalizzazione di quel partito perseguita da Matteo Salvini (originando una dialettica che può rivelarsi cruciale nei prossimi mesi). Insomma, dove emerge un leader dobbiamo sempre considerare i follower, rispetto ai quali il leader deve mantenersi in relazione. Comunicando, ossia “mettendo in comune” prassi e valori.
In questi giorni a sinistra è riaffiorato con forza il termine “comunità”. Lo stesso Nicola Zingaretti lo ha evocato in apertura della campagna elettorale per le primarie del Pd. È un buon segnale, dopo una snervante stagione di conflitti asperrimi. Ci permettiamo di suggerire di non contrapporre il richiamo alla comunità al ruolo della leadership. Non solo perché, a nostro avviso, non esistono partiti senza leader (e nemmeno leader senza partiti). Ma anche perché le vicende di questi anni ci suggeriscono che le comunità meglio possono organizzarsi attorno a leadership autorevoli e ad obiettivi condivisi.
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