Come e perché “Bella ciao” scalzò
l’inno dei partigiani “Fischia il vento”
Le abbiamo viste le facce oneste e un po’ turbate di quelle persone, costrette a cantare “Bella ciao” per la strada dopo che qualche autorità (un sindaco, un dirigente scolastico, un funzionario orgoglioso del suo piccolo potere) ha proibito di farlo in uno spazio istituzionale perché quella canzone sarebbe “di parte”. A loro vorrei raccontare una storia.
Quando avevo poco più di vent’anni mi presentai con la mia chitarra a un gruppo di compagni del Movimento Studentesco, che avevano iniziato a tenere concerti in scuole, fabbriche, piazze, con un repertorio di canzoni popolari, antifasciste, di attualità politica (quelle che nel folk revival nordamericano si chiamavano “topical songs”). Ne avrebbero fatti a centinaia, negli anni seguenti, e io sarei stato con loro: è una storia che nessuno ha raccontato, nemmeno gli studiosi del canto sociale, e una volta tornerò sull’argomento. Quella volta andavo lì per far ascoltare le mie canzoni più recenti, che avevo appena inciso col mio gruppo pop. Non c’erano giradischi o registratori in quell’aula della Statale: per questo ero andato con la chitarra. Per me il sound di quelle canzoni (delle chitarre elettriche e delle tastiere, del basso, della batteria, dei fiati) era molto importante, per i compagni non credo proprio, ma comunque gliele suonai e cantai. Mi dissero che il livello di coscienza politica manifestato da quelle canzoni era abbastanza modesto, e che avrei dovuto imparare dalla canzone popolare. Presi la cosa molto sul serio (forse anche troppo), e lo feci. Quelle stesse canzoni, poi, ebbero una certa diffusione, e alcune sono state anche scambiate per canzoni popolari, quindi non ho mai avuto nessuno spirito di rivalsa per quel giudizio, che secondo me era fondato. Ma qualche volta mi sono immaginato cosa sarebbe successo se mi fossi presentato lì come autore di “Bella ciao”.
La cosa è controfattuale, per quanto mi riguarda, ma – come vedremo – che qualcuno si presenti come l’autore di “Bella ciao” non è fantascienza. Cosa avrebbero detto i compagni della Commissione Artistica?
“Senti, compagno, cos’è questa storia di ‘Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor’? Il fascismo c’era da più di vent’anni, cosa vuol dire che uno si sveglia e trova l’invasore?” Be’, avrei risposto, è un modo realistico per accennare al fatto che molti italiani avevano convissuto col fascismo, e solo col disastro della guerra e l’arrivo dei nazisti si erano resi conto di cosa avevano subìto e accettato. “Ma questa non è l’espressione del livello più alto di coscienza politica delle avanguardie…” Eh, sì. “E poi, perché ‘partigiano portami via’? Quelli che si univano alla Resistenza non si facevano portare via, fuggivano ‘su per l’arida montagna’, prendevano l’iniziativa.” Capisco, compagni, sì. “E ‘l’ombra di un bel fior’? Che ombra mai farà un fiore? Perché quest’immagine poetica debole e scontata?” Lo ammetto, non ho trovato di meglio. Sì, “la rossa primavera dove sorge il sol dell’avvenir” è un’immagine molto più forte. “E quel battito di mani? Cos’è questa roba infantile? I partigiani avevano le mani occupate a tenere il fucile, non battevano le mani.” Sì, certo.
Chi ha studiato davvero la storia di “Bella ciao”, e anche quella dei suoi pretesi autori, saprebbe dare risposte molto più esaurienti. Ad esempio Cesare Bermani, nel suo bellissimo e – direi – insuperato saggio “La ‘vera storia’ di ‘Bella ciao’”, inserito in “Guerra guerra ai palazzi e alle chiese”. Saggi sul canto sociale, Odradek, 2003. Grazie a lui si capisce l’origine di quelle immagini che, non solo nella mia fantastoria ambientata alla Statale, sembrano difficili da spiegare.
Negli anni Sessanta gli studiosi discussero a lungo sull’ipotesi che “Bella ciao” derivasse da una o due famiglie di canti popolari, quella della “Bevanda sonnifera” e soprattutto quella di “Fior di tomba”. Da lì proverrebbero l’immagine del risveglio (“mi sono alzata… ed io ho vedü il mio primo amor”) e quelle del fiore (che era “della Rosina”, non del partigiano), e anche il “ciao” ripetuto tre volte (senza la “bella”). Insomma, come molti canti della tradizione, “Bella ciao” sarebbe il risultato di un montaggio evolutivo di materiali preesistenti, una costruzione fatta con le rovine di altre costruzioni del passato, non escluso il battito delle mani dei giochi dei bambini. Che poi i partigiani non battessero le mani è vero: lo hanno raccontato alcuni di quelli che effettivamente la cantavano. Ed erano stati pochi, concentrati sull’Appennino, mentre nel Nord quasi nessuno nell’immediato dopoguerra ricordava la canzone. Quella più nota fra i garibaldini, come ognuno sa, era “Fischia il vento”.
Il saggio di Bermani rievoca anche la storia della “versione delle mondine”, con un testo scritto da un mondariso, Vasco Scansani, nel 1952, causa di un incidente diplomatico che coinvolse i ricercatori che l’avevano raccolta, convinti che fosse precedente a quella partigiana (c’è qualcuno che ancora oggi lo crede, e in effetti qualche labile traccia di una versione dell’anteguerra è stata trovata). E sempre nel saggio si accenna all’ipotesi della discendenza da un ballabile kletzmer degli anni Venti, e addirittura alla vicenda di Rinaldo Salvadori, un ex-carabiniere che avrebbe composto “Bella ciao” come una canzonetta a metà degli anni Trenta.
In mezzo a tutti questi dubbi, c’è un’unica certezza: che la popolarità di “Bella ciao” e la sua elezione a canto esemplare della Resistenza risale agli anni Sessanta, non tanto per quello che la canzone dice, ma per quello che non dice: perché non nomina né il fascismo né il nazismo, perché non contiene simboli socialisti e comunisti, perché è basata su una tradizione popolare (forse…) e non su una canzone russa o un inno sovietico. Perché non pretende di esprimere un “alto livello di coscienza politica”. Intorno al 1964 la cantavano gli scout, i cattolici in gita (assieme a “La macchina del capo ha un buco nella gomma”). “Bella ciao” era, ed è, per tutti. Forse, che sia emersa negli anni dei primi governi di centrosinistra non è un caso. Sostituì “Fischia il vento” perché era inclusiva: solo i nostalgici del fascismo restavano fuori. E dunque, chi, oggi, può considerarla “di parte”? Non c’è bisogno di dare la risposta. Forse quelle brave persone con le facce oneste e turbate dovrebbero cantare anche “Fischia il vento”.
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