Colpevoli o no, per il fisco
siamo tutti evasori a prescindere

Il 31 dicembre 2019 l’Agenzia delle Entrate aveva nel suo “portafoglio” 954,7 miliardi di euro di crediti da riscuotere. Alla stessa data il debito pubblico italiano ammontava a 2.410 miliardi. In altre parole l’Agenzia delle entrate è seduta su un tesoro pari al 40% del debito pubblico. Ma c’è un problema: il tesoro è nascosto. Figuratevi, in modo naif, l’impiegato dell’Agenzia delle entrate appunto seduto alla sua scrivania che con una scrollata al computer vede passare davanti agli occhi quella montagna di miliardi e inizia la pesca: oggi butto l’amo a Rossi e a Bianchi, domani a Neri e a Verdi… Abboccheranno? Statisticamente è improbabile perché solo l’8% risponderà alla chiamata dell’impiegato. Ovvero, di quei quasi mille miliardi di crediti appena l’8% verrà riscosso. In termini assoluti, stando ai dati del 2019, si tratterà di 79,6 miliardi su 954,7. E gli altri 875,1 miliardi, che sono quasi la metà del Pil italiano e circa quattro volte l’ammontare del Recovery plan? Inesigibili al momento, in gran parte persi per sempre, tecnicamente accantonati in attesa della rottamazione prossima ventura. Ricchezza virtuale che non odorerà mai di soldi veri.

Giovanni Benaglia

la presunzione di colpevolezza

Così è se vi pare nel paese dove, per assurdo, la giustizia fiscale è basata sulla medievale presunzione di colpevolezza ed è tarata sul principio che anche il più onesto e mite dei contribuenti si porta dietro lo stigma della condanna. “A prescindere”, direbbe Totò.

È un corto circuito logico tra teoria da inquisizione e realtà da evasione che il commercialista Giovanni Benaglia analizza in un libro, brillante e istruttivo, intitolato proprio “Colpevole fino a prova contraria” (Book Stones editore, pagine 167, euro 15).

Benaglia opera a Rimini, in un Comune di fantasmagoriche meraviglie turistiche, che ha un reddito medio pro capite di 18.692 euro (dati 2019), appena qualche spicciolo sopra Reggio Calabria e soli 18 posti prima di Trani, ultima in Italia. A Rimini, per dire, l’impiegato dell’Agenzia delle entrate potrebbe fare una pesca miracolosa apparentemente con poco sforzo. Ma, proprio per come è costruito il sistema, all’amo dell’impiegato abboccheranno i pesci piccoli. La platea a cui è possibile attribuire la presunzione di colpevolezza, a ben guardare, sarebbe vasta ma quella aggredibile ha una capienza economica modesta. In più i premi di risultato indirizzano l’attività del nostro impiegato verso le situazioni facili, quelle che rientrano nel limite entro cui l’apertura di un contenzioso nelle commissioni tributarie (dove comunque l’Agenzia delle entrate perde la metà delle volte) comporterebbe troppe spese per il contribuente supposto colpevole. Così spesso la cartella esattoriale al massimo andrà in mediazione, l’Agenzia delle entrate dopo una rapida trattativa in un ufficio-suk la sconterà fino a due terzi e il contribuente lascerà cadere la lite non senza avere giurato al “sistema” che, se e quando gli capiterà l’occasione, si rifarà.

Il giochino ha vittime predestinate quasi certificabili: i compravenditori di terreni, ad esempio, sono vulnerabilissimi perché con il mercato in calo l’impiegato dell’Agenzia delle entrate, sempre scrollando il suo computer, troverà la comparazione con compravendite analoghe di uno o due anni prima a cifre maggiori per applicare tasse più alte presumendo che il valore venale non sia determinato dall’incontro tra domanda e offerta ma da altri fattori estranei al mercato. Comunque con i signori Rossi Bianchi Neri e Verdi, l’impiegato tirerà su pochi spiccioli. Nel 2019 sono stati effettuati, in Italia, 508.101 controlli, documenta Benaglia, e il 51% di questi aveva “un valore di maggiore imposta ricompreso in una forchetta tra zero e 1.549 euro, cioè niente”. Briciole che però creano un ambiente ostile allo Stato e la conseguenza è “una sorta di giustificazione morale nell’evadere le tasse”.

Il caso Abbado aperto dal 1976

Che fare, allora? L’autore suggerisce di concentrare l’attenzione sulle grandi imprese con “indagini accurate e solide” affidate a poco personale esperto. Insomma, quel che conta è la qualità più che la quantità considerato che “il 30% in termini di numeri e il 40% degli accertamenti emessi nel 2019 dall’Agenzia delle entrate va a finire in niente”. Oppure finisce in un limbo come nel caso di Claudio Abbado. Sì, proprio il direttore d’orchestra senatore a vita, oramai defunto e preso nella maglie del fisco nel 1981 per i redditi del 1976 che l’Agenzia delle entrate ha stabilito fossero di 300 milioni (di lire) a fronte di una dichiarazione di 47 milioni. L’Agenzia non aveva elementi concreti da opporre ma la “chiara fama” del musicista induceva a presumere che nella sua attività ci fosse stato del nero. Dopo una serie infinita di passaggi nei vari organismi di giudizio (dove è sempre l’incolpato a dover dimostrare l’innocenza) la Cassazione ha scritto una parziale “fine” nel 2018, “37 anni dopo l’inizio della vicenda, a quarantadue anni di distanza dall’anno di riferimento della presunta evasione” quando sia Abbado che il suo avvocato Viktor Uckmar erano morti. Aveva ragione Abbado ma la Cassazione ha potuto solo evidenziare l’errore ai giudici tributari che ora dovranno riesaminare il caso e decidere, forse in via definitiva.

Il libro di Benaglia mette in fila in modo ragionato e argomentato le storture di un sistema fiscale che Ocse e Fondo monetario internazionale, interpellati dall’ex ministro Pier Carlo Padoan, hanno definito “bizantino, con presenza di numerosi organismi che spesso si sovrappongono fra loro e ai quali si applicano addirittura regole diverse”. Soluzioni? Ocse e Fmi suggeriscono una serie di azioni “tutte con la logica che l’evasione si combatte non aumentando i controlli ma facendo aumentare la consapevolezza nel contribuente che l’amministrazione fiscale agisce in maniera equa”. Chissà se sarà la ricetta giusta, ma certo peggio dell’attuale non può essere.