Ascoltiamo Greta
Ce lo dice anche Ovidio
L’estro mi spinge a narrare di forme mutate in corpi nuovi. O dèi – anche queste trasformazioni furono pure opera vostra – seguite con favore la mia impresa e fate che il mio canto si snodi ininterrotto dalla prima origine del mondo fino ai miei tempi.
Prima del mare e della terra e del cielo che tutto ricopre, unico e indistinto era l’aspetto della natura in tutto l’universo, e lo dissero Caos, mole informe e confusa, nient’altro che peso inerte, ammasso di germi discordi di cose mal combinate. Un dio, e una più benigna esposizione della natura, sanò questi contrasti: separò dal cielo la terra, dalla terra le onde, e distinse l’aria spessa dal cielo puro. Aveva appena così distinto ogni cosa assegnandole confini precisi, che le stelle, le quali a lungo erano rimaste sepolte in cieche tenebre, cominciarono a scintillare e palpitare per tutto il cielo. E perché non ci fosse elemento che non avesse i suoi esseri animati, gli astri e le forme degli dèi occuparono le distese celesti, alle onde spettò di ospitare i lucidi pesci, la terra accolse i quadrupedi, l’aria cedevole gli uccelli.
Ma ancora mancava un essere più nobile di questi, dotato di più alto intelletto e capace di dominare sugli altri. Nacque l’uomo, o fatto con divina semenza da quel grande artefice, o plasmato dal figlio di Giàpeto*, a immagine degli dèi che tutto regolano, impastando con acqua piovana la terra ancora recente, la quale, da poco separata dall’alto etere, ancora conservava qualche germe del cielo insieme a cui era nata; mentre gli altri animali stanno curvi e guardano il suolo, all’uomo egli dette un viso rivolto verso l’alto, e ordinò che vedesse il cielo e che fissasse, eretto, il firmamento.
Fiorì per prima l’età dell’oro; spontaneamente, senza bisogno di giustizieri, senza bisogno di leggi, si onoravano la lealtà e la rettitudine. Non c’erano pene a incutere paura, né parole minacciose si leggevano su tavole di bronzo, né gente implorante clemenza temeva le labbra del giudice, ma tutti vivevano sicuri senza che alcuno li tutelasse. E la terra, non obbligata, non toccata dal rastrello e non squarciata dai vomeri, produceva ogni cosa da sé, e gli uomini si accontentavano dei cibi creatisi spontaneamente, raccogliendo i frutti del corbezzolo, e le fragole montane, e le corniole, e le more attaccate alle siepi spinose. Era primavera eterna.
Quando Saturno fu spedito nel Tartaro tenebroso e il mondo si ritrovò sotto il segno di Giove, subentrò l’età dell’argento. Giove ridusse la durata originaria della primavera, e fece scorrere l’anno attraverso inverno, estate e incostante autunno e primavera breve: le quattro stagioni. Allora per la prima volta l’aria si fece incandescente, riarsa da secche vampate, o pendette in ghiaccioli sotto i morsi del vento. Allora per la prima volta gli uomini si ripararono in case. Allora per la prima volta si seppellirono in lunghi solchi i semi di Cerere, e i giovenchi gemettero sotto il peso del giogo.
Seguì per terza l’età del bronzo: d’indole più crudele, e più pronta a usare le orribili armi; scellerata, però, non ancora. L’ultima fu quella del ferro duro. D’improvviso, in quest’epoca di tempra peggiore, irruppe ogni empietà; fuggirono il pudore e la sincerità e la lealtà, e al loro posto subentrarono le frodi e gli inganni e le insidie e la violenza e il gusto sciagurato di possedere. E non soltanto si pretendeva che la terra, nella sua ricchezza desse messi e alimenti, ma si discese nelle sue viscere, e ci si mise a scavare i tesori, stimolo al male, che essa aveva nascosto vicino alle ombre dello Stige. Così il ferro pernicioso e l’oro più pernicioso del ferro furono portati alla luce: ed ecco compare la guerra. Di rapina si vive. Vinta giace la bontà.
Giove dischiuse le labbra indignate dicendo così: “Dovunque si estende la terra, impera selvaggia la Furia! Si direbbe la congiura del crimine. E allora, al più presto paghino tutti la pena che meritano! Così è deciso!”
Subito rinchiude negli antri di Eolo Aquilone, e ogni altro vento che disperda gli ammassi di nubi. Libera invece Noto. E Noto vola fuori sulle sue ali madide: la barba è greve di nembi, sulla fronte si stendono nebbie; e a un tratto preme con vasto gesto le nuvole sospese nell’aria: echeggia un gran tuono, e fitta pioggia scroscia giù dal cielo. Le messi sono travolte, il contadino piange vedendo stese al suolo le sue speranze e distrutta tutta la fatica di una lunga annata. Ma Giove nella sua ira non si accontenta dei mezzi del cielo, suo regno. Nettuno, suo fratello, gli presta man forte con altra acqua. Questi convoca i fiumi, di cui è signore: “Spandete fuori le vostre forze! Aprite le vostre dimore, e rimosso ogni impedimento lanciate le vostre correnti a briglia sciolta!”. Traboccando i fiumi si gettano nell’aperta campagna, e travolgono sementi e piante, e greggi e uomini e abitazioni, e portano via cappelle e sacri arredi. Anche se qualche casa rimane e riesce a reggere a tanta furia senza crollare, le acque la superano e sommergono il tetto, e le torri non si vedono più, premute sotto gorghi.
E ormai non c’è più differenza tra mare e terraferma. Tutto è ormai mare, un mare senza sponde.
Uno si ritira sopra a un’altura, un altro, seduto in una barca, rema sul punto dove poco prima arava; quello naviga sopra i campi di grano o sopra il tetto della villa sommersa, questo afferra un pesce in cima a un olmo.
L’immenso gonfiarsi del mare ha ormai coperto le alture, e i flutti si frangono contro le vette dei monti. La stragrande maggioranza degli uomini è portata via dalle onde; quelli risparmiati dalle onde, li doma, mancando il cibo, il lungo digiuno.
La Fòcide separa la regione degli Aoni dalla regione dell’Eta. Terra ferace, finché era stata terra, ma, in quel momento, parte di mare e vasta distesa di acque cresciute all’improvviso. Lì un monte si leva altissimo, si chiama Parnaso. Fu in questo luogo (l’unico non sommerso) che Deucalione approdò su piccola barca con la sua compagna Pirra, e subito si misero insieme a pregare le ninfe della grotta Coricia e le divinità della montagna. Giove, quando vide il mondo allagato, ridotto a una palude stagnante, quando vide che di tante migliaia di uomini non era scampato che quello, che di tante migliaia di donne non era scampata che quella, due esseri innocenti, due esseri devoti, squarciò la cappa di nubi e, dispersi i nembi con Aquilone, rimostrò al cielo la terra, e alla terra il cielo.
(Ovidio, “Metamorfosi”, 3-8 d. C.)
* Prometeo
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