La svolta Usa sul clima
sia una sfida
anche per l’Europa
Era il 4 novembre 2019, esattamente dodici mesi fa: il presidente americano Donald Trump annunciò che gli Stati Uniti intendevano ritirarsi dall’Accordo di Parigi sul clima, trattato siglato nel 2015 che vincolava tutti i contraenti – di fatto l’intera comunità internazionale – ad impegnarsi per abbattere le emissioni di gas climalteranti e a farlo in tempi utili per evitare che il riscaldamento globale giunga alla soglia critica dei 2 gradi di aumento della temperatura media rispetto a prima della rivoluzione industriale.
In realtà si trattava di un “preavviso”, il ritiro vero e proprio sarebbe avvenuto dopo un anno, esattamente il giorno dopo le elezioni presidenziali americane del 3 novembre scorso. Così è successo, ma il dietrofront di Washington avrà vita brevissima: il presidente eletto Joe Biden ha già comunicato che il suo primo atto da “comandante in capo”, a gennaio, sarà tornare all’Accordo di Parigi.
Quell’America che non si è arresa a Trump
E’ una buona, grande notizia, tanto più promettente in questi mesi terribili che tutto il mondo sta vivendo. Il voto di quasi 75 milioni di americani non solo ha messo la parola fine ai quattro anni più bui della recente storia a stelle e strisce, ma ridà speranza a tutto il mondo nella lotta alla crisi climatica.
Certo, negli anni di Trump un bel pezzo di America ha continuato a battersi e anche ad agire per fermare la crisi climatica. Una vastissima e trasversale coalizione di forze – 25 Stati su 50, 435 sindaci, 350 università, 200 gruppi religiosi, 2200 aziende che rappresentano oltre metà dell’economia americana, centinaia di Ong – ha fatto vivere malgrado tutto l’impegno sul clima, e grazie a loro gli Stati Uniti – queste le previsioni odierne – già entro il 2025 saranno in grado di ridurre le loro emissioni di gas climalteranti del 17% (rispetto al 2005).
E’ certo che questa grande alleanza abbia pesato anche sul risultato elettorale: il 70% degli americani considera urgente fronteggiare la crisi climatica e il 67% ritiene che ciò che serve a stabilizzare il clima può fare bene anche all’economia. Un esempio del circolo virtuoso tra politiche climatiche e sviluppo economico viene dal settore dell’energia solare fotovoltaica: nel 2019 le grandi multinazionali americane – tra queste in prima fila colossi come Apple, Amazon, Walmart – hanno installato nel Paese oltre 1,2 Gigawatt di impianti solari. Un altro gigante del web, Google, prevede di utilizzare il 100% di energia rinnovabile per tutte le sue attività in ogni parte del mondo entro il 2030.
Dunque non cambia granché? No, cambia moltissimo. Senza la partecipazione delle politiche federali, il contributo degli Stati Uniti alla battaglia sul clima sarebbe rimasto insufficiente, incerto, e il ritorno del governo americano nell’alleanza per il clima può aiutare anche noi europei a muoverci con più decisione. La presidenza Biden ha promesso di fare delle politiche climatiche uno dei suoi principali cavalli di battaglia, assumendo in pieno l’obiettivo di azzerare l’uso di fonti fossili entro il 2050. Biden si è impegnato ad eliminare progressivamente i sussidi pubblici a petrolio e gas naturale, a chiudere le centrali a carbone entro il 2035, a lanciare un grande piano di investimenti pubblici da quasi 2 mila miliardi di dollari da destinare alla produzione di energia pulita, a trasporti pubblici e veicoli elettrici, al miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici.
Sull’ambiente il vero scontro elettorale
In pochi altri campi come in quello della lotta alla crisi climatica la distanza tra le due proposte in campo nelle elezioni americane risultava così abissale. Certo negli ultimi mesi la crisi sanitaria legata al Covid che ha investito con violenza speciale gli Stati Uniti e il modo irresponsabile in cui Trump l’ha affrontata, poi le mobilitazioni civili per la giustizia razziale, sono sembrati concentrare su altro lo scontro tra Biden e Trump. Ma il problema del clima, come dimostrano le prime dichiarazioni di Biden e della vicepresidente eletta Kamala Harris, resta un tema chiave per misurare l’enormità delle differenze tra la vecchia e la nuova presidenza.
Trump è stato un “negazionista” della pandemia esattamente come della crisi climatica, basta scorrere l’elenco delle sue innumerevoli – ridicole, se a diffonderle non fosse stato l’uomo più potente del mondo – fake-news sul tema: “il concetto di riscaldamento globale è stato creato dalla Cina per danneggiare l’America”, “a New York fa un bel fresco, dov’è finito il riscaldamento globale?”… La sua uscita di scena è provvidenziale. Quando il mondo si metterà alle spalle, speriamo tutti il prima possibile, l’incubo della pandemia, quando come dopo una guerra ci sarà da decidere “quale ricostruzione”, la scelta da compiere sarà netta: o imboccare con coraggio, lungimiranza, rapidità la via della transizione ecologica, che può dare frutti straordinari anche sul piano del benessere socioeconomico, oppure accettare come destino il collasso climatico. Trump e Biden rispetto a questo bivio camminavano in direzioni opposte, la vittoria del secondo accende una luce in fondo al tunnel di questo “annus horribilis”.
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