Che cosa ci insegna
(ancora) l’esperienza
dei Consigli di Zona
Correva l’anno 1974. Dopo le grandi lotte del biennio 1968-70 il movimento sindacale era ancora in pieno fermento. Per iniziativa della FLM, la federazione unitaria dei metalmeccanici da poco costituita dalla Fiom-Cgil di Bruno Trentin, dalla Fim-Cisl di Pierre Carniti e dalla Uilm-Uil di Giorgio Benvenuto, furono avviate le prime esperienze dei Consigli di Zona (CdZ). Che dovevano essere organismi unitari rappresentativi dei Consigli di fabbrica e delle altre forze sociali del territorio: lavoratori occupati delle diverse categorie, disoccupati, studenti, contadini, braccianti. Finalità immediata di quella iniziativa fu fin dall’inizio quello di evitare l’isolamento dei Consigli di fabbrica rispetto alle forze sociali esterne; avviare dal basso un movimento in grado di identificare a livello di zona obiettivi di lotta e di sviluppo economico con la partecipazione della gente e senza delegare alle strutture sindacali esterne (Sindacati di Categoria, Camere del Lavoro della CGIL) la definizione delle piattaforme rivendicative e l’individuazione delle controparti istituzionali. Si trattava di superare un limite storico dell’attività sindacale sul piano territoriale: azioni di protesta prive di continuità, obiettivi generici (occupazione, mezzogiorno, casa, sanità) e calati dall’alto.
I CdZ apparvero fin da subito di particolare stimolo per un rinnovato ruolo del movimento sindacale nel Mezzogiorno. Esigenza particolarmente sentita nella provincia di Caserta (alta disoccupazione, crescente peso dell’economia illegale di stampo camorristico, lavoro nero, clientelismo e corruzione diffusa, crisi dei partiti tradizionali..). Alcuni di noi, all’interno della FIOM, erano convinti che i CdZ rappresentassero un embrione di nuove forme di democrazia diretta, più che mai necessarie in un Sud percorso da ambigue forme di ribellismo.
Chi scrive era in quel periodo segretario della FIOM a Caserta, una realtà in piena mutazione sociale ed economica, segnata da un crescente numero di operai (soprattutto giovani operaie) in settori industriali di avanguardia. Erano quasi tutte fabbriche da poco localizzate a Caserta grazie ai finanziamenti straordinari garantiti al mezzogiorno. Un nucleo di classe operaia molto legato al territorio di appartenenza che proprio in quel periodo s’impegnava nel consolidamento dei Consigli di Fabbrica.
La FLM di Caserta individuò la zona di Aversa, come la più adatta alla sperimentazione di quello che negli anni settanta sarebbe diventato il primo CdZ della Campania. Ci furono numerose riunioni che registrarono una crescente partecipazione. Fu così che tecnici e operai di aziende tecnologicamente avanzate (Indesit, Texas Instruments..) si confrontarono direttamente con le problematiche dei disoccupati, dei braccianti, degli studenti (alcuni provenienti dalla Università di Napoli) , e perfino delle donne dell’aversano.
E arrivò il giorno dello sciopero e della manifestazione. Fu un successo imprevisto: decine di migliaia di uomini e donne marciarono nelle strade della cittadina rivendicando con forza, agli interlocutori indicati nella piattaforma, risposte concrete alle diverse rivendicazioni del CdZ. Non era mai successo e ricordo ancora le perplessità espresse da alcuni dirigenti del sindacato (CGIL compresa) nei riguardi di una lotta costruita su basi giudicate poco ortodosse ma che aveva espresso una grande e consapevole partecipazione.
Il lettore si chiederà perché siamo tornati con la memoria a un’esperienza, per altro ben presto esaurita, che risale a più di quaranta anni fa. Non si tratta, con ogni evidenza, di riproporre meccanicamente l’iniziativa dei CdZ degli anni settanta. Abbiamo ricordato quell’esperienza per sottolineare come ancora oggi non sia stato adeguatamente affrontato, in particolare dal sindacato, il nodo politico, più che mai attuale, del rapporto tra gli occupati, in particolare gli operai, e i vasti settori sociali che circondano la fabbrica.
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