Cesare Romiti, l’uomo
che fece la guerra
ai lavoratori
Cesare Romiti, morto ieri a 97 anni, passa alla storia per un’immagine in bianco e nero, un’assemblea operaia al cinema Splendor, nella periferia torinese. Sul palco i vertici sindacali, silenziosi, con le facce scure, ansiosi di scappare a Roma. In platea i delegati della Fiat, qualcuno piange, altri si abbracciano. Urla, proteste, insulti. La rabbia e il dolore degli sconfitti. Il “consiglione” operaio non si rassegna, ma la sconfitta è chiara, netta, questa sì una svolta storica.
La Fiat di Romiti, da poco diventato unico capoazienda scelto e imposto da Enrico Cuccia alla famiglia Agnelli, riprende il pieno controllo delle fabbriche, finisce la stagione della democrazia dei consigli, della solidarietà e dell’egemonia operaia. Una battaglia di 35 giorni, consumata ai cancelli di Mirafiori, la cattedrale dei metalmeccanici, con la minaccia di oltre 14.000 licenziamenti, scioperi e lotte, la marcia dei 40.000 dirigenti e impiegati del cavalier Arisio organizzata da Carlo Callieri (i “colletti bianchi” verranno poi ricompensati diventando esuberi), una crisi di governo, le parole di Enrico Berlinguer sull’occupazione degli impianti e poi la fine, la sconfitta con oltre 24.000 lavoratori in cassa integrazione. Molti non rientreranno più. Circa 200 ex operai Fiat si suicideranno negli anni successivi, qualcuno ha avuto una “breve” in cronaca. Romiti, più tardi, si vantò di aver “salvato il sindacato dal terrorismo”.
Fu uno scontro di classe
In quegli anni, tra l’omicidio Moro e l’esplosione del debito pubblico, Romiti vince chiaramente uno scontro di classe, tra capitale e lavoro. E’ un manager senza fronzoli, duro, deciso nella sua azione e nell’assunzione di responsabilità così pesanti. Trionfa, assicura ai suoi azionisti pace, stabilità e dividendi. Una vittoria che convince anche esponenti della sinistra, come Piero Fassino che disse di “esser diventato socialdemocratico in quei giorni”. Ben più di qualche modello d’auto di successo, molto di più delle sue intuizioni manageriali, decisamente oltre la sua influenza sulla politica, la finanza, l’editoria, è la vittoria di Mirafiori che trasforma Romiti nel dominus del più grande gruppo industriale e di potere in Italia per un quarto di secolo.
La Fiat di Romiti, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, è un gigante che raccoglie auto, componentistica, acciaio, assicurazioni, finanza, editoria (la Stampa e poi il Corriere della Sera), calcio, banche. Dopo le due crisi petrolifere degli anni Settanta la Fiat ha bisogno di una ristrutturazione, di ridefinire le prospettive di crescita con la scelta di diversificare dal ciclo dell’auto oggetto di crisi repentine e risalite faticose e che, soprattutto, richiede investimenti enormi e innovazione.
Romiti non è un uomo dell’auto, l’unico davvero capace è Vittorio Ghidella, allontanato bruscamente da Corso Marconi in una delle tante lotte di potere. Le campagne sulla “qualità totale”, il toyotismo declinato in stile sabaudo non funzionano. Se escludiamo la privatizzazione dell’Alfa Romeo che nel 1986 Bettino Craxi consegnò agli Agnelli, la Fiat di Romiti non ha allargato i confini dell’auto. E’ toccato a Sergio Marchionne giocare la carta temeraria dell’operazione Chrysler, ma Romiti era convinto che fossero stati gli americani a salvare la Fiat.
Tra Cuccia e Agnelli
Chi pensa a Romiti come campione della borghesia imprenditoriale tricolore si sbaglia: i suoi unici riferimenti, mai traditi e mai discussi, sono stati Gianni Agnelli ed Enrico Cuccia. Il primo gli aveva affidato il potere di agire su tutte le province dell’impero, senza fare prigionieri se necessario. La vera intelligenza era quella di Cuccia che ben conosceva i polli del capitalismo nazionale e si fidava totalmente di Romiti per la sua lealtà e la capacità di assumere responsabilità impegnative.
Romiti è sempre stato l’uomo del grande capitale, ha dedicato la sua vita a questa missione. Quando Mani Pulite bussò in casa Fiat a Romiti toccò solo una lieve condanna (pagarono i manager fedeli, come Francesco Paolo Mattioli ritratto mentre usciva da San Vittore con foto sul Corriere della Sera) e Cuccia si prese la briga di scrivere una lettera di solidarietà con Romiti, lettera che finiva con la citazione latina de minimis non curat praetor.
Dei nuovi capitani d’impresa, o “pirati” come scrissero i giornali, tipo Raul Gardini e Carlo De Benedetti, il capo della Fiat non nutriva grande apprezzamento. Con l’Ingegnere è stato uno scontro continuo, cessato solo in tarda età. De Benedetti, che dal palazzo Uffici dell’Olivetti pensava di modernizzare i capitalisti italiani, teorizzava l’azionista di “riferimento” che con una quota modesta di capitale poteva controllare e governare le imprese, mentre Romiti era fedele alla “maggioranza” del capitale. De Benedetti, che era stato amministratore delegato della Fiat per una breve stagione, una volta cacciato disse che non si potevano “fabbricare auto con dei coglioni”. Forse, però, l’Ingegnere e Romiti sarebbero d’accordo nel giudicare impresentabile l’aggregazione de la Stampa e Repubblica nelle mani del giovane Elkann.
L’elogio di Lama
Uscito dalla Fiat da presidente, un addio suggellato con il “miglior bilancio della storia”, Romiti si è dedicato alla Gemina e dunque al Corriere della Sera, all’Impregilo, in compagnia dei figli. Lo ricordiamo, dopo che la Gemina acquistò Valentino, accompagnare con qualche imbarazzo Monica Bellucci in rosso tra i tavoli di Villa d’Este. Ben presto furono le aziende di Romiti a finire “in rosso”. Inutile dire che fuori dalla Fiat anche il trionfatore di Mirafiori ha smarrito poi il suo smalto. L’ultimo ricordo è del 2016, un intervento al Senato per ricordare Luciano Lama che stava su un’altra barricata. Disse Romiti: “Lama fu sempre leale ed è stato un uomo tra i più coraggiosi che abbia mai conosciuto”.
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