Cento cappelletti ed è subito Natale

La tavola è sempre stata il luogo ideale per celebrare la festa: il banchetto comune e il consumo abbondante di cibo sono un rito che rinsalda i legami di gruppo. Se ciò vale per ogni banchetto e per ogni festa, a maggior ragione vale per il Natale, festa della nascita e dell’inizio della vita. A fine dicembre la tradizione pagana celebrava il solstizio invernale, cioé il risorgere del sole e della natura; la liturgia cristiana, sovrapponendosi ai culti precedenti, volle fissare proprio in quel periodo la nascita di Cristo, inteso come “nuovo sole” e come inizio di una “vita nuova”.

Fra i cibi rituali destinati alle feste natalizie, un particolare significato simbolico hanno i pani dolci farciti di semi canditi, uvette, augurio di fertilità e di ricchezza. Ma le grande feste sono soprattutto il trionfo della carne, forse per la carica “sacrificale” che la carne possiede fin dall’antichità, forse (più semplicemente) perché essa è stata per secoli il principale desiderio alimentare degli uomini, il più represso e il più difficile da soddisfare, soprattutto per i ceti meno abbienti. L’endemica fame di carne (a cui corrispondeva un consumo addirittura eccessivo fra le classi alte) era come esorcizzata dai consumi esagerati dei giorni di festa, che provvisoriamente rendevano simili i comportamenti alimentari di ricchi e poveri.

Ma nel giorno della festa non basta mangiare molta carne. Bisogna anche mostrarlo, ostentarlo. Wolfgang Goethe, durante il suo viaggio in Italia nel 1787 scrive da Napoli: “Lungo le strade sono sospese ghirlande di cibi e si ammirano corone di salsicce legate con nastri rossi. I tacchini portano tutti sul sedere una banderuola rossa: mi dicono che se ne sono venduti 30.000, senza contare quelli ingrassati privatamente nelle case. Intanto, un gran numero di asini carichi di erbaggi, capponi, capretti percorrono la città e il mercato”. Tutti mangiano molto e soprattutto molta carne, ma non basta: tutti devono sapere quanto sta accadendo, perché ogni rituale, per funzionare, deve essere condiviso e comunicato. “Ogni anno”, continua Goethe, “un ufficiale della polizia percorre a cavallo la città, accompagnato da un trombettiere, e annuncia nelle piazze e agli incroci quante migliaia di buoi, di vitelli, di capretti, di agnelli, di maiali i napoletani hanno consumato. Il popolo si rallegra a sentire quei grossi numeri, e ognuno ricorda con soddisfazione la parte che ha avuto in tale godimento”.

Ma se il Natale viene di venerdì, giorno dedicato alla moderazione alimentare e all’astinenza dalla carne? Prevarrà l’obbligo penitenziale o quello di festeggiare la ricorrenza con un memorabile banchetto? Francesco d’Assisi non aveva dubbi in proposito. Quando i suoi discepoli – racconta Tommaso da Celano – discussero tra loro il delicato problema e poi, nell’incertezza, mandarono frate Morico a porre la questione al maestro, ne ricevettero una risposta inequivocabile: “Tu pecchi, fratello, a chiamare venerdì (ossia: giorno d’astinenza, NdA) il giorno in cui è nato per noi il Bambino. In un giorno come questo vorrei che anche i muri mangiassero carne, e poiché questo non è possibile, almeno ne fossero spalmati all’esterno”. Francesco – continua il suo biografo – era particolarmente devoto al Natale e “voleva che in questo giorno i poveri e i mendicanti fossero saziati dai ricchi, e che i buoi e gli asini ricevessero una razione di cibo e fieno più abbondante del solito”. Una volta avrebbe detto ai suoi compagni: “Se mai potrò parlare all’imperatore, lo supplicherò di emanare un editto generale, che imponga a tutti coloro che ne hanno la possibilità di spargere per le vie frumento e granaglie, affinché in un giorno di tanta solennità gli uccellini e particolarmente le sorelle allodole ne abbiano in abbondanza”.

Ha ancora senso, oggi, nella società dei consumi assicurati e troppo spesso abbondanti, celebrare la festa con una mangiata rituale? Qualcosa merita di essere conservato: la festa può essere occasione per una piccola riflessione sulla fortuna di poter scegliere il cibo secondo il nostro gusto, e sul rispetto che meritano il lavoro, le tecniche, i saperi da cui nascono le cose buone che mangiamo.

Secondo Pellegrino Artusi, padre della cucina italiana, il pranzo di Natale dovrebbe essere costituito da sei portate. La prima non può che essere una minestra in brodo, omaggio alle tradizioni della sua terra natìa: “cappelletti all’uso di Romagna”. Seguono, come “principii” (noi li chiameremmo antipasti, ma nel sistema artusiano essi normalmente seguono il brodo di apertura), dei crostini di fegatini di pollo. Poi tre piatti di carne: lesso (cappone, “con uno sformato di riso verde”), rifreddo (pasticcio di lepre) e arrosto (“gallina di faraone, e uccelli”). Come dolce propone di scegliere fra il panforte di Siena, il pane certosino di Bologna e il “gelato di mandorle tostate”.

In questo menu, cappelletti e cappone sono da intendere come un binomio inscindibile. Infatti “questa minestra”, spiega Artusi, “per rendersi più grata al gusto richiede il brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini”. E raccontando gli usi della sua Romagna non manca di evocare le imprese di certi “eroi” che a Natale “si vantano di aver mangiato cento cappelletti”. Certo che, osserva Artusi, a mangiare in questo modo “c’è il caso di crepare, come avvenne ad un mio conoscente”. Beato allora – aggiungeremo noi, sulla scorta di Bertolt Brecht – il paese che non ha bisogno di eroi.

(Massimo Montanari, “Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo”, 2009)