Cent’anni fa la Repubblica di Weimar
Perché la sua storia ci parla ancora
Il 9 novembre del 1918 in Germania fu proclamata la Repubblica. Fu proclamata due volte: la prima dal socialdemocratico Philipp Scheidemann, che affacciato a un balcone del Reichstag parlò alla folla scippando al suo compagno di partito Friedrich Ebert l’annuncio del passaggio a lui delle consegne alla guida del governo dall’ultimo primo ministro nominato dall’imperatore, Maximilian von Baden. La seconda dal capo degli spartakisti Karl Liebknecht, due ore più tardi, da una finestra del castello di Berlino che la corte dell’imperatore stava sgombrando in una gran confusione mentre Guglielmo II Hohenzollern se ne fuggiva in Olanda. Fu la fine della rivoluzione di novembre che, come quella avvenuta in Russia esattamente un anno prima, era cominciata con l’ammutinamento dei soldati e dei marinai, in Germania quelli di Kiel.
Il centenario di questa nascita doppia e contrastata è stato celebrato, quest’anno, dal presidente della Repubblica federale Frank-Walter Steinmeier davanti al Bundestag nell’aula delle sessioni plenarie del Reichstag, a una ventina di metri dal balcone dal quale parlò Scheidemann. Non era un fatto scontato e Steinmeier lo ha in qualche modo sottolineato, invocando per l’occasione un “patriottismo dai toni moderati” e aggiungendo che la celebrazione del centenario evoca “sentimenti contrastanti”.
Il contrasto nei sentimenti evocato da Steinmeier è dato da una sorta di schizofrenia della memoria tedesca. Quella che un altro presidente della Repubblica federale, che allora era solo la sua parte occidentale e aveva la capitale a Bonn e non ancora a Berlino, Gustav Heinemann aveva chiamato negli anni ’70, la nostra “difficile memoria”. Deriva dal fatto che il 9 novembre per la Germania è una data ambivalente: porta il segno di un destino altalenante da più di un secolo e mezzo tra il bene e il male radicale, tra il lutto e la speranza.
Guardiamo alla storia. Il 9 novembre del 1848 il federalista cattolico e democratico Robert Blum fu fatto fucilare a Vienna, dove era accorso per sostenere la rivoluzione degli ungheresi contro gli Asburgo, dal feroce generale Windisch-Graetz. Fu la sanzione del fallimento dei tentativi di creare una comunità democratica degli stati tedeschi: il via libera al dispotismo sanguinoso degli imperi centrali che avrebbe portato alla catastrofe della guerra. Esattamente settant’anni dopo, a Berlino, venne sulla scena la grande speranza della nascita della Repubblica sulle macerie fisiche e morali di quella immane tragedia. Una Repubblica, però, insidiata fin dall’inizio dal revanchismo della destra che imputava alla democrazia la nascita nel segno del tradimento della patria: il Dolchstoß, la pugnalata alle spalle che, secondo loro, i pacifisti avevano inferto ai soldati al fronte. Il 9 novembre del 1923 l’ex caporale dell’esercito austriaco Adolf Hitler tentò a Monaco il putsch della birreria, che gli sarebbe costato il carcere nel quale avrebbe scritto il “Mein Kampf”. Poi solo quindici anni sarebbero trascorsi fino a quella notte di terrore in cui il rumore dei vetri rotti in tutte le città del Reich avrebbe accompagnato il primo grande pogrom degli ebrei organizzato dai nazisti. E ancora, mezzo secolo più un anno doveva trascorrere fino all’ultimo 9 novembre “tedesco”, quello che vide la caduta del Muro di Berlino e l’inizio di una Germania che poteva chiudere, finalmente, l’era della divisione prodotta dalle sue proprie colpe.
Delle “due repubbliche” che nacquero a Berlino il 9 novembre di cent’anni fa, quella dell’estrema sinistra, che avrebbe voluto “fare come a Pietrogrado” e guardava a Mosca, si spense pochi mesi dopo, nel sangue della rivolta armata degli spartakisti, nella quale per mano degli estremisti di destra dei Freikorps (cui però il ministro dell’Interno socialdemocratico aveva dato mano libera) furono uccisi barbaramente lo stesso Liebknecht e Rosa Luxemburg, che pure aveva cercato in tutti i modi di evitare che si arrivasse allo scontro armato. L’altra repubblica, nata nel segno della sciaguratissima divisione a sinistra, divenne quella che sarebbe stata chiamata la Repubblica di Weimar perché a Weimar, tranquilla e colta città di provincia in cui aleggiava lo spirito di Johann Wolfgang von Goethe, venne insediata l’assemblea costituente per sottrarla alle intemperanze e alle pressioni politiche e sociali della metropoli Berlino. Tanto per tornare sul tema delle ambivalenze della memoria tedesca si potrebbe far rimarcare, a questo punto, che la mite Weimar di Goethe e dei costituenti democratici è la stessa città che ha convissuto dal 1937 alla fine della guerra con il Lager di Buchenwald, che celebrava i suoi orrori sulla collina a una decina di chilometri dal centro (dove i fumi dei forni crematori arrivavano ogni volta che il vento spirava nel senso giusto).
Da qualche tempo si parla molto della Repubblica di Weimar e c’è chi non sfugge alla tentazione di proporre suggestive analogie tra il nostro difficile momento politico e quell’esperienza paradigmatica di instabilità politica determinata dalle drammatiche debolezze istituzionali di fronte all’emergere di estremismi e demagogie populiste alimentate dalla Grande Inflazione e poi dalla Grande Depressione. Ci sono o no queste analogie?
In realtà le debolezze della Repubblica uscita dalla rivoluzione di novembre avevano le loro radici più profonde in due scelte politico-istituzionali che erano figlie del tempo in cui quell’esperienza nacque e che poco hanno a che vedere con la crisi delle democrazie contemporanee, anche di quella italiana: l’eccesso di potere che venne attribuito al presidente della Repubblica, con la possibilità di assumere poteri speciali in situazioni di emergenza, che venne utilizzato al momento opportuno dai nazisti per impossessarsi del potere, e la mancanza di controllo democratico e parlamentare sulle forze armate, che così ebbero sempre il modo di “fare politica” in proprio e assestarsi come contropotere della democrazia dei “borghesi”. La frammentazione politica con l’assenza di soglie minime per la rappresentanza parlamentare, che molti giudicano il difetto principale del sistema di Weimar, fu certamente un altro fattore di debolezza ma va detto anche che alla dispersione delle posizioni politiche, ideali e ideologiche, al “disordine” che questo provocava, faceva in qualche modo riscontro la straordinaria ricchezza culturale che rese allora Berlino una capitale inquieta e vivacissima, capace di competere, negli anni ’20 e fino al ’33, con le grandi metropoli come Parigi, Londra o New York nelle manifestazioni artistiche, dal teatro al cinema alle arti figurative, nello stile di vita, nei costumi, nelle libertà civili.
E però delle analogie ci si presentano agli occhi quando si prende in conto l’erosione dall’interno dell’assetto democratico che, a partire da un certo momento in poi, fu esercitata nella Repubblica di Weimar dalle forze politiche che prima delle altre e molto più massicciamente inclinarono verso il populismo e la demagogia. I nazisti furono abbastanza deboli fino al 1930, quando la grave recessione indotta dalla politica restrittiva del cancelliere Heinrich Brüning, offrì loro la possibilità di presentarsi come gli unici e veri paladini degli interessi delle classi popolari e del ceto medio. Sta qui, forse, la spiegazione di una strana attitudine che caratterizza ancor oggi l’opinione pubblica tedesca: il timore, quasi ossessivo, per l’inflazione, nel ricordo della spaventosa perdita di valore del denaro nei primi anni ’20, e la mancanza assoluta di paura “retroattiva” per la recessione, che invece fu, molto più che l’inflazione, il motore che portò al potere i nazisti. I quali, una volta arrivati al governo, seppero far scattare immediatamente il corto circuito ideologico per cui la loro “legittimità”, in quanto unici interpreti degli interessi e della volontà del popolo, prevaleva sulla “legalità”, ovvero sul sistema delle regole sancite dalle leggi esistenti e dalla Costituzione, così come teorizzava brillantemente il giurista Carl Schmidt. Anche i comunisti, sul fronte opposto, rivendicavano la stessa connaturata identità con il “popolo” e una “legittimità” che derivava dal legame organico con la classe dirigente dell’unico paese in cui il potere era stato trasferito al “popolo”: l’Unione sovietica. Tra le due “legittimità” lo scontro era inevitabile.
La Repubblica di Weimar crollò perché la sua struttura di democrazia parlamentare, il suo assetto istituzionale, venne compresso, svilito, combattuto. Se analogie ci sono è qui che bisogna cercarle: dove i populisti di casa nostra pretendono per sé un potere che deriverebbe direttamente dal “popolo” e una legittimità che negano a “quelli che nessuno ha eletto”, siano gli organismi di controllo e di garanzia, siano i “burocrati di Bruxelles”.
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