C’è speranza per il bisogno di casa?
Sì, se si batte la rendita. Il libro di Storto
Nelle città, soprattutto le più grandi, c’è un forte bisogno di case sociali. Negato. Nessuno ne parla, ma gli sgomberi si susseguono senza tregua, senza pietà. Molti vivono per strada. E nelle case popolari, oggi, vivono famiglie che hanno avuto per lo più l’assegnazione prima del 2000, a volte negli anni ’60. Intanto le cose sono cambiate, l’emergenza che aveva costituito un diritto allora magari si è allontanata, anche grazie a sostegno di un affitto sociale. Ma nuovi bisogni si affacciano, senza alcuna risposta.
L’assoluta assenza di manutenzione delle case pubbliche, il blocco delle costruzioni e, più grave questione, l’incapacità o la non volontà di gestire il patrimonio esistente sono peccati mortali che .pochi vedono, molti subiscono. Certo, gestire il patrimonio esistente è cosa gravosa, ma lasciare le cose come stanno non dà sollievo sociale né urbano, piuttosto garantisce rendite di posizione.

Della politica della casa dagli anni settanta a oggi parla un curioso libro di Giancarlo Storto: “La casa abbandonata. Il racconto delle politiche abitative dal piano decennale ai programmi per le periferie”.
Curioso e prezioso. Innanzitutto per la lunga esperienza dell’autore nell’amministrazione pubblica, e per la sua solida impostazione riformista: ingegnere, è stato per quarant’anni direttore generale delle aree urbane e dell’edilizia pubblica al ministero dei lavori pubblici. Dalla sua postazione ha osservato gli effetti delle scelte politiche e di governo, testandole sulla materia viva della città. Dunque un libro indispensabile per chi voglia capire come crescono e funzionano le città.
Facile dire “periferie”. Di questi tempi non c’è discussione politica che non afferma si debba ricominciare dalle periferie. Ricominciare a fare politica, ad esempio. Ma le periferie sono sfuggenti: in rapido e continuo movimento, è difficile fotografarle. Un’indagine vale poco più di qualche mese, i movimenti sociali sono veloci. Nessuno che dica che nelle periferie bisogna investire, mettere denari. Negli anni ’70 si investivano anche mille milioni di euro l’anno per le case popolari. Oggi nulla.

“Dai 18-20.00 alloggi di edilizia sovvenzionata degli anni Ottanta – nota Storto – la produzione scende a 14.000 nel 1990 e arriva, con un decremento lineare, a poco più di 7.000 nel 1999; dall’anno successivo al 2013 i nuovi alloggi oscillano tra 9 e 14.000 annui con il minimo raggiunto nel 2004. Qualche altro finanziamento è disponibile per gli interventi di recupero che però solo in minima parte, stimata dal 10 al 20 per cento, produce un aumento dello stock”.
Il danno è evidente adesso, ma viene da lontano. E diventa eclatante con il liberismo del centrodestra, che tra un rosario di condoni edilizi e una ridda di promesse, taglia i fondi all’edilizia popolare. In più, la legge Bassanini, che decise di affidare l’Istituto case popolari, o Iacp, e il suo patrimonio alle regioni, negando loro però ogni risorsa per la gestione, gli ha dato un serio colpo. Aggravato dall’avvio della dismissione e la vendita degli alloggi agli occupanti. Senza curarsi dell’ossimoro per cui se qualcuno può acquistare casa, sia pure a prezzi calmierati, non ha più, chissà da quanto tempo, il diritto ad abitarvi, che veniva dall’impossibilità di pagare un affitto di mercato. Eppure le case popolari sono un bene pubblico, collettivo.
Ma, appunto, chi controlla? A chi interessa?

Ci sono state esperienze felici, certo. La stagione ad esempio dei contratti di quartiere, fine anni 90, interventi integrati in quartieri svantaggiati. Che hanno coinvolto nella progettazione associazioni di base e abitanti, attenuando a volte in buona parte i disagi sociali. Finanziato con più di 300 milioni di euro, sono stati utilizzati per recuperare alloggi ma anche spazi per i servizi, recuperando in parte le disuguaglianze prodotte dal sistema economico sociale, una costante ormai. Qui la programmazione e il rapporto con gli abitanti è stata una costante, a differenza dell’improvvisazione che purtroppo caratterizza da decenni le decisioni della politica. “La complessità delle periferie è pari solo alla loro vastità – dice Storto – e se molte riserve possono ragionevolmente mantenersi sull’efficacia e sull’adeguamento delle poltiiche abitative, sulle politiche urbane si è prossimi all’anno zero”.

Legge dopo legge, decreto dopo decreto, Storto s’inoltra nella giungla di norme che si sono sommate per quarant’anni sulla questione abitativa con un declinare di risorse. Eppure ce ne sarebbe bisogno. Aumentano le coabitazioni forzate, le case in affitto sono circa il 18% del totale, il resto è di proprietà. Ma molte famiglie abitano in luoghi inappropriati o occupati: è perfino difficile, nota Storto, “ricostruire l’entità e l’articolazione del disagio abitativo. Si conoscono i provvedimenti di sfratto emessi – 77.278 nel 2014 (eseguiti 36.083) di cui 69.015 per morosità – che del disagio rappresentano una delle manifestazioni più acute”.

C’è speranza per l’edilizia pubblica? Intanto c’è una domanda inevasa: ricucire la frattura tra le politiche urbane e le politiche abitative, conclude Storto, “non è questione da esaminare dal punto di vista delle reciproche compatibilità. La necessità di sperarla, trascurando la preoccupazione di incorrere in un giudizio di radicalità al pari di ogni proposta difforme dal pensiero corrente, deve risultare un’opzione da tramutare in risposta a una domanda abitativa che non è possibile soddisfare in altro modo”.
Cambiare è possibile, conclude Storto. Purché si guardi alle città con occhi liberi dalla propaganda interessata: “Qualsiasi ragionamento teso a mitigare le distorsioni del mercato edilizio s’imbatte nella rendita. La rendita come generatrice di disuguaglianze sociali e di povertà urbane; la rendita come zavorra che fagocita risorse a discapito degli investimenti produttivi; la rendita come legante capace di impastare e compattare un conglomerato coeso grandi e piccoli interessi”.
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