Caso Regeni,
le rimozioni morbide
del generale al-Sisi
Per decifrare compiutamente il caso Regeni, bisogna seguire il percorso di uno dei suoi protagonisti politici. Magdy Abdel Ghaffar, ex ministro dell’Interno è sicuramente un mastino tra gli uomini forti del regime. All’indomani della Primavera egiziana, tiene a battesimo la National Security, nata sulle ceneri del State Security Investigation Service, coinvolto in abusi durante la repressione dei moti di piazza Tahrir. Ghaffar diventata vice del direttore Hamid Abdullah, si presenta come un riformatore, in tv riconosce gli eccessi dello State Security Service, ma li giustifica perché, sostiene, l’obiettivo era quello di combattere il terrorismo. Formula così il programma che ha sin qui caratterizzato il regime egiziano: se chiedi più democrazia, puoi essere processato per terrorismo. Come sta accadendo a Patrick Zaki, arrestato e sottoposto a tortura poco meno di un anno fa, dopo essere rientrato al Cairo da Bologna, dove frequentava un master.
I rapporti tra Ghaffar e al-Sisi
Nel gennaio 2013 Ghaffar va in pensione, ma due anni dopo è lo stesso al-Sisi a volerlo al suo fianco come ministro dell’Interno. E’ ancora il periodo delle sparizioni forzate (due-tre al giorno) e dei sessantamila oppositori politici rinchiusi nelle carceri. E’ Ghaffar che, subito dopo la scomparsa di Regeni, nega che sia stato arrestato rispondendo all’ambasciatore italiano Maurizio Massari. E’ ancora lui che, in una conferenza stampa, attribuisce il ritrovamento “casuale” del cadavere a “un taxi driver”. Sempre Ghaffar si sarebbe trovato nella stessa struttura in cui il dirigente del sindacato degli ambulanti Mohamed Abdallah si recò, nel dicembre 2015, per accusare Giulio Regeni di essere una “spia”. Fu il sasso che si trasformò in valanga. Quella di Ghaffar in quegli uffici era forse una presenza casuale ma, data l’ora tarda in cui fu notata, costituisce una coincidenza significativa.
Nel 2018 al Sisi viene rieletto con votazioni molto criticate dagli osservatori internazionali e con la partecipazione che cala dal 47% al 41% degli aventi diritto. Una delle sue prime mosse è un rimpasto di governo. Ghaffar lascia il posto di ministro e diventa consigliere del presidente per l’antiterrorismo. Al suo posto è nominato il generale Mahmoud Tawfiq, anche lui proveniente dagli alti ranghi della Nsa, dove è conosciuto come “la volpe”, spesso lodato per aver represso azioni che il governo egiziano attribuiva alla Fratellanza musulmana. La musica del regime dunque non cambia, cambia invece la posizione di Ghaffar che, rimosso da un incarico prestigioso, non viene però allontanato dal governo e appare praticamente sotto tutela.
I rapporti tra lui e al Sisi non sono mai stati facili, eppure il presidente egiziano non se ne sbarazza. Forse vorrebbe, essendo Ghaffar l’uomo della compagine governativa più esposto a livello internazionale per il caso Regeni: da lui dipendeva la National Security, coinvolta nelle indagini in base a prove difficilmente eludibili; lui aveva mentito alle autorità italiane, negando l’arresto di Giulio; sempre lui aveva gestito, anche pubblicamente, i momenti successivi alla sparizione e, come si è visto, alla scoperta del corpo del ricercatore. Ma forse non può, perché Ghaffar del sequestro Regeni sa tutto, verosimilmente anche quello che ancora non è emerso dalle indagini.
Poco meno di due anni dopo, salta un’altra testa eccellente, quella del generale Tariq Sabir, capo dipartimento della National Security che si occupa di controllare Ong, sindacati e organizzazioni politiche. Il mondo con cui Regeni era venuto a contatto per i suoi studi. Non a caso Sabir è l’ufficiale più alto in grado tra i quattro coinvolti nell’inchiesta sulla morte di Regeni. I vertici egiziani lo silurano, ma rifiutano di consegnare il suo indirizzo ai giudici italiani che vorrebbero processarlo e hanno l’obbligo di notificargli le accuse. Sabir non perde grado e stipendio, ma diventa, proprio in questi giorni, responsabile dell’ufficio che si occupa di carte d’identità. Il suo è un atterraggio morbido, come quello del ministro Ghaffar. Vediamo di capire perché.
Scovare i complotti
Il 25 gennaio del 2016, il giorno in cui Regeni scompare, i nervi del regime di al-Sisi sono al massimo della tensione e, d’altra parte, scoprire presunti complotti può garantire promozioni e ricompense agli uomini degli apparati di sicurezza. L’economia egiziana è in gran parte in mano ai militari e questo probabilmente agisce da moltiplicatore dei conflitti di interesse in ambito istituzionale. E’ il contesto in cui è rimasto incastrato Giulio Regeni e, come lui, hanno perso la libertà, la vita o entrambe migliaia di egiziani. Tra questi, uomini e donne appartenenti alla Fratellanza Musulmana – organizzazione che almeno ufficialmente ripudia il terrorismo ma è considerata il principale e più pericoloso nemico interno dal regime di al-Sisi.
Sempre il 25 gennaio, ad esempio, viene riconsegnato alla famiglia il corpo martoriato di Mohamed Hamdan, un agronomo sequestrato da uomini armati una decina di giorni prima sul posto di lavoro, a Beni Suef. Il corpo è crivellato di proiettili ma, come conferma uno dei fratelli, mostra anche i segni di torture e bruciature su collo e orecchie. L’autopsia non viene eseguita, ma è estremamente improbabile che Hamdan, militante della Fratellanza musulmana, dopo un arresto spettacolare, sia stato ucciso durate un conflitto a fuoco in una fattoria, come sostiene la polizia egiziana. La paranoia di regime del resto è ai massimi livelli e basta poco per essere sospettati di complotti o spionaggio. Il corpo di Hamdam non viene nascosto ma consegnato alla famiglia. Un messaggio macabro ma chiaro. Lo stesso accade per Regeni?
Il fatto che la stessa Procura generale del Cairo – anche se apparentemente guidata intenzioni incompatibili con la ricerca della verità – dichiari che il corpo di Regeni sia stato appositamente fatto ritrovare, può essere spiegato solo sulla base di ipotesi che, come spiegato, hanno però un loro supporto nell’antagonismo tra gli apparati di sicurezza egiziani.
Una “firma” della National Security?
La più importante è la seguente: la National Security, vista l’impossibilità di ottenere informazioni da un soggetto scambiato per una spia e trattato con inaudita ferocia, fa comunque sapere di aver scoperto un complotto e abbandona il corpo di Regeni in una zona come si è visto non disabitata, dove quindi può essere ritrovato. Il luogo potrebbe essere considerato anche una “firma”, visto che si trova a circa quattro chilometri dal National Security Building, un centro direzionale del servizio di sicurezza egiziano, e più o meno alla stessa distanza dal Central Security Club, a quanto si può capire un centro di divertimento per famiglie di appartenenti alle Central Security Forces, organizzazione che, come la Nsa, dipende dal ministero dell’Interno – e in cui, per tre anni, ha militato anche Ghaffar. Se si prendesse per buona questa possibilità, la responsabilità della morte di Regeni ricadrebbe ovviamente sugli ufficiali della National Security già indagati dalla magistratura italiana e, in concorso, sull’ex ministro dell’Interno Ghaffar.
Ma c’è anche una possibilità di segno opposto: l’Intelligence militare, in qualche modo coinvolta nelle indagini sulla presunta “spia”- o per una richiesta di collaborazione da parte della Nsa, come sosteneva un testo anonimo inviato all’ambasciata italiana in Svizzera, o all’esito di un conflitto tra apparati – si libera del corpo di Regeni facendolo ritrovare nella “metà campo” della National Security. Questo farebbe risalire le responsabilità dell’omicidio Regeni, fino ad al Sisi, che della Military Intelligence è sia creatura che nume tutelare.
Per carità, si tratta solo di due ipotesi, ma hanno un pregio: possono spiegare come mai, nonostante la rimozione-promozione del ministro dell’Interno e il repulisti ai vertici della National Security, al Sisi e Magdy Abdel Ghaffar rimangano avvinti in un intreccio di interessi e forse di reciproci ricatti. In secondo luogo, a cinque anni dai fatti, rendono ancora più chiaro perché le autorità egiziane non possano accettare un processo italiano a quattro ufficiali che, secondo le evidenze raccolte, hanno sequestrato, torturato e ucciso un giovane la cui unica “colpa” era di essere un ottimo ricercatore.
Questo è il terzo di una serie di articoli sul caso Regeni a firma di Gigi Marcucci. Qui potrete leggere il primo ed il secondo.
Sostieni strisciarossa.it
Strisciarossa.it è un blog di informazione e di approfondimento indipendente e gratuito. Il tuo contributo ci aiuterà a mantenerlo libero sempre dalla parte dei nostri lettori.
Puoi fare una donazione tramite Paypal:
Puoi fare una donazione con bonifico: usa questo IBAN:
IT54 N030 6909 6061 0000 0190 716 Intesa Sanpaolo Filiale Terzo Settore – Causale: io sostengo strisciarossa
Articoli correlati