Caro Minniti,
ma a che serve
un capo senza idee?
Sostiene Marco Minniti: “Serve a ben poco discutere del programma, perché il programma non crea la connessione sentimentale con il popolo. Quella la può creare soltanto una persona, un capo”. Per farsi capire meglio fa l’esempio di Matteo Salvini: “Salvini con le sue idee perverse è un capo politico. Dico di più: è il capo politico di un partito leninista. Nel suo mondo non si leva mai una voce contraria, non esiste il dissenso”. Queste parole l’ex ministro del governo Renzi le dice in un colloquio con Goffredo De Marchis pubblicato ieri su Repubblica, nel quale ricorda la sua battaglia per fermare gli sbarchi dei migranti e le sue arrabbiature con l’Europa.
Senza fare troppi giri di parole, penso che il ragionamento di Minniti sia sbagliato e sia l’ulteriore dimostrazione di come una parte del Pd non abbia ancora capito la lezione del 4 marzo e, andando più indietro, quella del 4 dicembre. Sono ancora convinti che un leader può tutto, che il capo risolve ogni problema, che il capitano senza una squadra e senza uno schema di gioco sia in grado persino di vincere il campionato. La vicenda di Matteo Renzi – un capo tenace, non c’è dubbio – sta lì a dimostrare esattamente il contrario. Proprio la convinzione che la leadership in un partito sia l’unica carta vincente, a dispetto di tutti e contro tutti, ha portato al disastro in cui oggi si trova il Pd. L’assolutezza del capo, questa specie di fondamentalismo carismatico e di neo culto della personalità, sono stati nell’ultimo ventennio gli elementi fondamentali della cultura della destra italiana. Basti pensare a Berlusconi per capire di che cosa stiamo parlando. Anche se non bisogna dimenticare che quando ha vinto, Berlusconi ha vinto con le idee (“padroni a casa propria”, per citare lo slogan centrale della sua campagna elettorale) e non solo con la sua bella faccia da magnate tv e con lo scettro del re in un regno proprietario senza avversari interni.
Lo stesso discorso vale per Salvini che prima di essere un capo è stato l’ideatore di una linea politica riassumibile in tre parole: l’Italia agli italiani. E’ con questa che ha portato la Lega dal 4% del 2013 al 17 del 2018.
Il problema principale del Pd, caro Minniti, non è il capo. Certo, nessuno nega che la leadership sia importante, ci mancherebbe, mica si pensa che un partito di sinistra debba essere autogestito. Ma un capo senza idee e senza popolo non serve a nulla. Sono cose che nel Pci si studiavano in sezione, leggendo i Quaderni del carcere di Gramsci, e si pensava che il leader dovesse essere espressione di un popolo e di un’idea.
Ecco, il problema dei democratici è proprio un altro. Non hanno idea di quale opposizione fare: quella quasi goliardica della cerchia renziana mangiando i pop corn, oppure una centrata sui temi veri e su alternative programmatiche? Non hanno idea di quale strada imboccare: si torna a sinistra e alle battaglie di sinistra a cominciare da quelle sul lavoro, oppure si presidia un centro alla Macron? Non hanno idea di quale strategia adottare: la vocazione maggioritaria o la ricerca di nuove alleanze? Come si sa, su questi temi dentro il Pd le opzioni sono diverse. Ma proprio perché sono diverse presuppongono scelte diverse. E proprio perché le scelte sono diverse si continua a non scegliere.
Colpisce che un uomo politico come Minniti, che viene dalla storia dei comunisti italiani – abituati a quella che si chiamava l’analisi reale della situazione reale – non veda quello che vedono in molti e si pieghi alla cultura del comando. Ma il punto per il Pd è tutto un altro. Con buona pace del capo-padrone e soprattuto di Lenin che, con estrema franchezza, con Salvini non c’entra proprio un bel nulla.
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