Capolarato e Gdo
il doppio sfruttamento dei braccianti

Sono trascorsi due anni dall’approvazione della legge sul caporalato, un decreto voluto e promosso dagli ex Ministri Martina e Orlando per porre un argine al fenomeno dello sfruttamento in agricoltura. Sindacati e organizzazioni della società civile hanno esultato quando, quel 19 ottobre 2016, l’Italia si è dotata di uno strumento legislativo più avanzato per combattere le migliaia di vessazioni che ogni anno si consumano sui terreni agricoli del Bel Paese, ai danni di una moltitudine di braccianti senza diritti e tutele.

Nonostante questo passo importante, tuttavia, alcuni problemi storici continuano ad affliggere il settore primario. Sono ancora centinaia di migliaia i braccianti irregolari in Italia, molti dei quali immigrati dall’Africa o dall’est Europa. Si tratta spesso di uomini e donne in condizioni di vulnerabilità, scarso accesso ai servizi e poca o nessuna conoscenza dei propri diritti. Un esercito di marginali che si sposta per la penisola inseguendo la stagionalità dei prodotti, con turni massacranti e alloggi di fortuna lontani dai centri abitati. Un simile contesto è aggravato dalla scarsa disponibilità dei servizi più elementari che dovrebbero favorire lo sviluppo di un mercato del lavoro dignitoso: mancano politiche abitative, trasporti pubblici tra città e campagna, sistemi di collocamento efficaci. In questo vuoto dello Stato si inserisce da sempre il caporalato, quella forma di intermediazione più o meno informale tra agricoltori e braccianti per mettere in connessione la domanda e l’offerta di lavoro.

È così che decine di persone stipate in piccoli furgoncini si trovano a percorrere chilometri e chilometri lungo le strade delle regioni a forte vocazione agricola, per lavorare giornate intere sotto il sole cocente e tornare nei ghetti con un misero compenso. Alcuni di loro non tornano mai: è successo nel foggiano lo scorso 4 e 6 agosto, quando due incidenti hanno causato la morte di 16 lavoratori immigrati e infiammato il dibattito sul caporalato e lo sfruttamento della manodopera in agricoltura. Migliaia di persone sono scese in piazza  a Foggia per chiedere al governo un atto concreto contro le condizioni insostenibili del lavoro nel settore primario. La risposta è stata flebile: il Ministro dell’Agricoltura, Gian Marco Centinaio, ha criticato la legge sul caporalato, annunciando di volerla rivoluzionare. Ma il timore delle organizzazioni della società civile è che l’esecutivo, almeno nella sua componente leghista, stia pensando di indebolirne la parte più progressiva, che estende per la prima volta la responsabilità del reato all’azienda agricola che ricorre alla figura del caporale.

Lo sfruttamento del lavoro non si consuma infatti nel rapporto tra bracciante e caposquadra, ma coinvolge per natura anche l’imprenditore che beneficia di questo sistema. La legge Martina-Orlando del 2016 è uno spartiacque da questo punto di vista. Eppure si può fare di più. Ad esempio intervenendo con un approccio di filiera, che prenda in esame lo squilibrio dei rapporti di potere tra parte agricola, parte industriale e Grande distribuzione organizzata (GDO).

Non si può più pensare, nel mondo iperconnesso di oggi, che le condizioni di deprivazione sofferte sui campi non trovino le loro cause anche nel prezzo finale dei prodotti alimentari in vendita al supermercato. Un prezzo che molto spesso rasenta numeri da prefisso telefonico. La ragione è che oggi la GDO in Italia assorbe i due terzi degli acquisti alimentari: pochi grandi gruppi di distribuzione si trovano quindi in posizione di forza rispetto alle centinaia di migliaia di aziende agricole che coltivano i prodotti destinati ai loro scaffali. Emblematico è il caso di Eurospin, che abbiamo denunciato pubblicamente per aver acquistato un milione di bottiglie di passata di pomodoro ad appena 31,5 centesimi l’una. Il tutto grazie ad un’asta al doppio ribasso tra i suoi fornitori, costretti a rischiare la vendita sottocosto pur di assicurarsi una commessa di tali proporzioni. È inevitabile che sistemi come questo inneschino poi dinamiche a cascata lungo la filiera: l’industria di trasformazione, infatti, dovrà rivalersi sui coltivatori di pomodoro per recuperare margini di guadagno. E se dalla vendita di un chilo di materia prima il produttore incassa 8-9 centesimi, è chiaro che a rimetterci sarà l’ultimo anello di questa catena insana, ossia il bracciante. Comprimere il costo della manodopera, talvolta, diventa l’unico sistema per restare sul mercato. Ma questo è inaccettabile, e per invertire la tendenza diventa necessario riequilibrare i rapporti economici all’interno della filiera. Da questo punto di vista, qualcosa sta cambiando: le richieste per una piena trasparenza del processo produttivo trovano maggiore ascolto nelle istituzioni, così come le pressioni per ottenere un blocco delle pratiche commerciali sleali che determinano uno schiacciamento dei prezzi all’origine. L’Unione europea dovrebbe approvare entro l’anno una direttiva in merito, e sarà necessario che l’Italia la recepisca immediatamente, aumentandone l’ambizione in alcune sue parti. Alla grande distribuzione, infatti, dev’essere vietato tassativamente di acquisire prodotti alimentari tramite aste al doppio ribasso.

Ma serve accelerare un’operazione normativa che è anche culturale, e che ha a che fare con il valore che diamo al cibo e al lavoro agricolo. Un sistema di trasparenza e tracciabilità dei prodotti alimentari potrebbe mettere il consumatore in condizione di verificare la provenienza e la sostenibilità di ciò che acquista, uscendo da un mondo unidimensionale dove l’unica coordinata è il prezzo. Soltanto così avremo creato le basi per mettere in connessione più stretta consumatori e produttori, ciascuno più consapevole del destino dell’altro e del nesso invisibile, ma forte, connaturato ad ogni pratica di acquisto.